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Il medico cinese: «Va chiuso tutto o gli ospedali vanno in tilt. Servono cliniche per i positivi»

Repubblica intervista il capo della delegazione cinese in Italia: «I medici non sono abbastanza tutelati. Criticità nelle postazioni di terapia intensiva, strutture vecchie. Occorre rintracciare i positivi» 

Il medico cinese: «Va chiuso tutto o gli ospedali vanno in tilt. Servono cliniche per i positivi»

Repubblica intervista l’infettivologo cinese Qiu Yunqing, a capo della delegazione di medici cinesi sbarcata in Italia qualche settimana fa. Per fermare il contagio, secondo lui, occorrerebbe un mese di chiusura totale di fabbriche e negozi, di distanziamento sociale rigido. Così ne verremmo fuori.

«Un vero blocco collettivo delle attività, come si è fatto in Cina. Con rifornimenti alimentari per quartieri, o blocchi di palazzi. Serve il controllo rigido della diffusione del contagio, altrimenti non finiranno mai le persone da curare, ed è così che gli ospedali vanno in tilt. Non vi sono altre misure, lo dico perché noi l’abbiamo sperimentato. Ci tengo che il messaggio passi al vostro Paese».

Il medico riconosce l’alto livello della sanità degli ospedali italiani. Ha visitato l’ospedale Sacco di Milano, quello di Modena e l’ospedale di Bergamo. Ma dichiara di essere molto preoccupato.

«Siamo molto preoccupati. Ho visto medici che lavorano con la massima dedizione, senza curarsi della fatica e dei pericoli. Una forma di sacrificio, dato il carico di lavoro così elevato».

I medici non sono sufficientemente protetti.

«I livelli di protezione sono sicuramente inferiori ai nostri. Parlo di maschere, di tute protettive in Tyvek. Le maschere generiche non bastano, l’impressione è che gli operatori non siano abbastanza tutelati. Forse per mancanza di risorse effettive, o, all’inizio, di mancata comprensione del problema. Come è successo a Wuhan, nel primo periodo c’è stata una situazione simile: non si sapeva cosa fosse, questo virus, e non c’era la possibilità di avere risorse».

Nel suo ospedale sono stati curati 1200 casi di Covid-19, racconta, alcuni gravissimi e nessuna delle 6mila persone che formano il personale medico si è ammalato. E non c’è stato nemmeno un morto; in tutta la regione solo un decesso.

«Una malattia come questa, molto contagiosa, richiede tute pesanti, quindi il lavoro è fisicamente ancora più faticoso. Non si può reggere un turno di 8 ore, bisogna a scendere a 4/6 ore. Quindi ci vuole più gente, un terzo in più del solito».

Non solo.

«Le postazioni di terapia intensiva attrezzata. Lì ho visto delle criticità. Poi, le strutture di degenza sono spesso vecchie, e questo complica molto».

Il medico offre dei suggerimenti.

«I pazienti devono avere percorsi separati, Tac riservate, medici e personale dedicato. Solo così si evita che l’ospedale stesso diventi un focolaio. I nostri medici non tornano mai a casa, vivono in albergo e sono sottoposti continuamente ai tamponi. Gli ospedali devono essere isolati. Poi, c’è l’enorme problema del controllo del contagio. Nessun ospedale, neanche il più moderno, può resistere all’afflusso gigantesco di pazienti, come sta succedendo in Italia. I possibili malati vanno intercettati prima. Servono cliniche dove si ricoverano i positivi, anche se asintomatici. Li si monitora, e si può intervenire in tempo, se si aggravano. Ma non devono stare a casa senza controlli, né devono andare al pronto soccorso. Devono stare in questi posti finché non si negativizzano. Nel frattempo bisogna tracciare i loro contatti, e controllarli».

Bisogna analizzare i movimenti.

«Con l’analisi dei movimenti, se un malato è stato in un autobus, bisogna rintracciare tutti gli occupanti. Si deve fare una ricerca anamnestica dettagliata».

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