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Il Napoli è tornato a essere una chiesa più che una squadra

È tornata la noia. Odoriamo di incenso più che di erba. È il Napoli ma sembra The Irishman. Ci siamo di nuovo trasformati in un souvenir

Il Napoli è tornato a essere una chiesa più che una squadra

Non saprei a cosa paragonare la noia che sprigiona oggi il Napoli. Ognuno di quegli applausi che a decine i giocatori si scambiano tra loro a ciascun velleitario passaggio fallito è come una ulteriore bomba che deflagra in un deserto post-atomico. È la noia della vetustà di quei calciatori la cui vecchiaia non è stata rispettata e recisa – come richiede il calcio che vuole sempre sangue nuovo – ma è stata incamerata, istituzionalizzata. È il Napoli ma sembra The Irishman.

Quei movimenti di gioco cui siamo tornati, come fedeli in coda in una processione pasquale; quel gioco che vogliamo rievocare, ricordo pallido di quando ci convincemmo di essere felici (quella felicità di quando tuo zio ti costringeva ad ascoltare del famoso Napoli di Vinicio del quale, tutto sommato, non te ne fotteva niente); quel continuo richiamare moduli, tagli, modi di gioco di un tempo perduto hanno reso i nostri centrocampisti dei rabbini che srotolano le sacre pergamene per leggere i testi sacri. È Allan e sembra uno studioso del Talmud. Siamo diventati una chiesa più che una squadra, odoriamo di incenso più che di erba. Gattuso e Giuntoli sempre più Walter e The Dude che disperdono maldestramente le ceneri di Donny in The Big Lebowski. Un undici che assomiglia sempre più da vicino alla cassettiera laccata in finto rococò che mia nonna teneva in camera, vicino ad una specchiera gigante.

Il giorno dopo la grande trovata cinematografico-presidenziale di licenziare un tecnico pluridecorato a valle di un quattro a zero e una qualificazione in Champions, ci siamo trasformati in un souvenir. Il mondo ci scuote, o semplicemente ci prende a sberle, e noi opponiamo lo scintillio dei coriandoli colorati che scendono nella sfera di cristallo ricolma d’acqua dove è immersa una miniatura del Vesuvio – l’unico luogo dove si può ragionevolmente immaginare che possa tornare a giocare Hysaj.

La casacca verde ci assimila al terreno di gioco. A breve scompariremo. Lozano è già scomparso ed è giusto che sia così – sorrideva troppo, con quella faccia sempre rivolta al domani e la gioia, in questa squadra fatta di sequel, va presa con parsimonia, corrompe tutto il lavoro di chirurgia estetica necessario a tenere insieme difesa e centrocampo, presidenza e lettere degli avvocati difensori, Edo e il suo account Twitter.

Qualcuno migliore di noi (sicuramente migliore di questo Lazio Napoli) scrisse un giorno: “Dobbiamo essere capaci di accettare – o almeno di imitare – il modo in cui un uomo libero è sconfitto. Un uomo libero, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno”.

Ma qui siamo tornati al nostro stato naturale, alla casa dalla quale partimmo più di un decennio fa, quando avemmo il privilegio di iniziare una avventura col giusto senso di disprezzo per gli anni passati. Quando potevamo dire, col presidente di allora, di “essere venuti dalla merda” senza temere scomuniche, a parte qualche ovvio mal di pancia tifosa. Dieci anni sono bastati a creare la nostra sacra tradizione e ad auto-seppellirci dentro, con tanto di fiori. Qui siamo di nuovo tutti in catene. Finalmente. E, se non felici, siamo almeno sereni di esserlo.

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