ilNapolista

L’altro Conte a L’Equipe: «La sconfitta è un lutto. Rido poco? In battaglia non si ride»

Non c’è solo sesso nell’intervista di Antonio Conte al magazine dell’Equipe. Il tecnico nerazzurro tocca anche tanti altri argomenti

L’altro Conte a L’Equipe: «La sconfitta è un lutto. Rido poco? In battaglia non si ride»

Non c’è solo sesso nell’intervista di Antonio Conte al magazine dell’Equipe. Il tecnico nerazzurro tocca anche tanti altri argomenti. Di seguito vi proponiamo alcune delle sue dichiarazioni.

“Che cosa provo dopo una sconfitta? Dolore. Non mi sento bene per un giorno e mezzo. Come se fosse un lutto. La sconfitta deve lasciare tracce. In me, nei miei giocatori, nel club. Da questo attingo energie e forza per trovare rimedi, per migliorare la situazione. La vittoria, invece, può indurre un certo rilassamento”.

“Amavo insegnare. Se non avessi fatto il calciatore o l’allenatore, avrei fatto l’insegnante di educazione fisica. Avevo già conseguito i miei diplomi all’Università di Foggia, era il mio piano B. Mi ero diplomato anche per far felici i miei genitori che hanno sempre anteposto gli studi al calcio”.

“Ho letto molti libri di psicologia, che riguardano la motivazione, la gestione di un gruppo. Ultimamente ho letto I segreti degli All Blacks di James Kerr. Le conoscenze tecnico-tattiche non bastano, bisogna essere un allenatore a 360 gradi. Un allenatore gestisce 50 persone ciascuna dotata di un proprio cervello e deve trattarle nel modo migliore. Io sono il capo e devo prendermi cura di loro. Diverse case editrici mi hanno chiesto di scrivere un libro sulla gestione del gruppo, mi piacerebbe  ma non ho il tempo, ho troppo lavoro. Lo farò più in là”.

“Si possono fare molte cose nel calcio ma la sola cosa da evitare, se non volete sacrificare la vostra famiglia, è allenare. Il calcio mi ha dato molto, però mi ha anche tolto molto. Un giorno mi piacerebbe provare un altro mestiere, sempre nel calcio che è la mia passione, penso al dirigente o al commentatore tv”.

“Le generazioni precedenti crescevano fuori, lontano da casa, la strada faceva maturare rapidamente, ci si abituava a risolvere da soli i problemi. Oggi sono sul telefono, la PlayStation, il computer. Ci sono i padri che risolvono i problemi per loro. La strada ti insegna, ti aiuta a sviluppare abilità. Di noi, se fossimo state scimmie, si sarebbe detto che ci arrampicavamo sugli alberi, che imparavamo a fare salti di due tre metri senza farci male. Oggi sfido chiunque ad arrampicarsi sugli alberi. Noi litigavamo anche, dovevamo cavarcela da soli, non c’erano mamma, papà o qualcun altro a salvarci. Oggi questo manca, i giocatori sono troppo abituati ad attendere la soluzione dall’esterno”.

“Rido poco? La competizione è una battaglia e quando si va a combattere non c’è alcun motivi di ridere o essere contenti. È mors tua, vita mea. Sono molto concentrato sul fatto che ne resta solo uno, e mi impegno affinché lo sia anche la mia squadra. Io gioco per vincere, questo può infastidire, mette pressione a molte persone che non sono abituate e che hanno sofferto a seguirmi. È il mio modo di essere e mi porterà a smettere presto di allenare, vivo il mio lavoro in maniera troppo totalizzante. Potrò sorridere quando avrò meno responsabilità e meno persone sulle spalle”.

“Le persone che gestiscono la loro immagine, sono false. Se uno ha il sangue caldo, non può castrarsi per far finta di essere tranquillo. Alla fine, emerge la propria natura. Io sono molto passionale, senza alcun dubbio, e la esigo da chi lavora con me. Chi non ne ha, incontra difficoltà con me”.

“Puoi essere chi vuoi, aver avuto una grande carriera di calciatore, il giocatore ti valuta, ti pesa in appena due settimane: “Quello lì è un top allenatore, quell’altro no, quell’altro ancora è uno medio”.

“Non sono un integralista dal punto di vista tattico. Al Chelsea ho utilizzato il 3-4-2-1 con Hazard, Willian o Pedro dietro la punta e due centrocampista centrali. All’Inter ne ho tre. Mi adatto alle caratteristiche dei giocatori per valorizzare le loro qualità e limitare i loro difetti”.

“I discorsi a fine primo tempo? Ci sono molti cliché. Dicono che si possono tenere discorsi tranquilli ma sono le sfuriate a lasciare il segno. È come a scuola. Di cosa ci si ricorda? Delle dieci volte in cui il professore ci ha detto bravo o di quella volta che è uscito fuori dai gangheri?”.

“Sono una persona onesta, credo nel lavoro e nel sacrificio. Non mi snaturo, non sono un leccaculo. Sono arrivato dove sono grazie alla fatica che ho fatto, non devo ringraziare nessuno tranne i miei genitori. Sono uno spirito libero”.

ilnapolista © riproduzione riservata