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A Milano torna la paura: proiettile per Conte, la polizia lo protegge, aperta inchiesta, famiglie preoccupate

Il proiettile svela il brutto clima in una città dove camorra e mafia sono sempre più presenti. Prima in Italia per reati. Ripercussioni sulla squadra

A Milano torna la paura: proiettile per Conte, la polizia lo protegge, aperta inchiesta, famiglie preoccupate

Aspettando domani, certi di leggerli, articolesse così titolate “ScappaMilano” o “Fuggi fuggi”, il Napolista manifesta tutta la sua preoccupazione per l’atto intimidatorio nei confronti di Antonio Conte che ha ricevuto una busta con proiettile. L’ennesimo atto nella città maglia nera dei reati e dove la criminalità organizzata sta ramificando i propri affari. 

Fino a qualche giorno fa si sentivano talmente sicuri, i coniugi Conte, da vivere con assoluta serenità le uscite della figlioletta. Adesso non più. Da quando una busta con una serie di minacce e un proiettile è stato recapitato a casa loro, a Milano. E stavolta non è accaduto come a Napoli dove il questore Giuliano – figlio di Boris Giuliano – ha detto che non c’è alcun nesso tra episodi di microcriminalità (un furto di un’autoradio a Zielinski e un tentativo di furto in casa Allan) e il tifo, e quindi che non sussistono le condizioni per avviare un sistema di protezione nei confronti dei calciatori.

Per Antonio Conte, a Milano, il sistema di protezione è scattato. Non vigilanza privata. Lo ha deciso lo Stato, la polizia. Il Corriere della Sera prova a sdrammatizzare, scrive che è la forma più leggera di controllo: “un’auto con agenti passerà più volte al giorno nelle vicinanze del posto di lavoro o dell’abitazione della persona da proteggere”; intanto sugli elenchi della polizia da ieri c’è anche Antonio Conte.

Anche a Milano la vicenda ha una coda polemica, con l’intervento delle mogli. La signora Conte parla di bufala: «Non esiste nessun proiettile», e attacca la stampa italiana. Poi interviene l’Inter che ammette: «Sì, la lettera esiste ma è arrivata in sede. Non è stato Conte a presentare la denuncia». La lettera col proiettile c’è, ed è stata recapitata alla sede dell’Inter.

Fatto sta che si è mossa anche la Procura di Milano: ha aperto un’inchiesta, al momento a carico di ignoti, per minacce aggravate e detenzione di munizioni dopo che lo scorso 14 novembre l’allenatore dell’Inter Antonio Conte ha ricevuto una lettera contenente una cartuccia per fucile inesplosa e messaggi minatori. L’indagine è coordinata da Alberto Nobili, responsabile dell’antiterrorismo milanese, e delegata ai Carabinieri del nucleo investigativo.

Il contesto, inutile negarlo, è quello che è. Perciò gli investigatori non sottovalutano niente. E il riferimento non è soltanto alla frange della tifoseria organizzate (dove pure non mancano i legami con la ‘ndrangheta, sì a Milano) che già hanno subito un duro colpo in seguito alle indagini per gli scontro di Inter-Napoli, con i capi ultras finiti in galera. E le famiglie dei calciatori, ovviamente, si preoccupano.

Pm e investigatori non si sbilanciano ma Milano – al di là dell’ottima stampa di cui gode – è una realtà che sempre più spesso mostra il suo dark side. È la città terza italia negli infanticidi, tanto per dirne una. Nei “Furti con strappo”, cioè gli scippi, è seconda con 63,2 ogni 100mila persone. Prima invece nei “furti con destrezza”, ossia i borseggi, con ben 895,2 ogni 100mila abitanti. Prima nei “furti in esercizi commerciali”, 311,1 ogni 100mila. Seconda per quel che riguarda le “rapine”, 101,2 ogni 100mila abitanti.

«Se continua così, vedrai che fanno l’antimafia pure pe’ Milano! […] La chiamano mafia, ma oggi sono… sono bande. Bande in lotta e concorrenza fra di loro. La vera mafia non esiste più» (Don Vincenzo, Milano Calibro 9)

E ancora: terza per numero di “estorsioni” denunciate, la 19esima per “associazione di tipo mafioso”.

Riportare tutti gli episodi di cronaca, che quasi sempre restano confinati alla cronaca locale, è praticamente impossibile.

Lo scorso aprile, in via Cadore, in pieno centro, un tentato omicidio con sei colpi di pistola. Un agguato a Enzo Anghinelli coinvolto in diverse indagini nel traffico di cocaina. Non a caso la vittima ha poi patteggiato una condanna a tre anni per traffico di stupefacenti. Di quelle indagini, per il momento, non si è saputo nulla. E sono trascorsi sette mesi da quel 12 aprile.

Scrive Panorama in un servizio di pochi mesi fa:

da tre anni, a Milano, le chiusure di esercizi commerciali ordinate dalla prefettura si sono messe a fioccare con frequenza a dir poco impressionante. Nel 2017 i casi erano stati 11, ma l’anno scorso sono aumentati a 14, e al 15 marzo del 2019 sono già nove. E si dice che siano una cinquantina i provvedimenti sul tavolo del prefetto, ma ancora non firmati. Particolarmente colpiti dalle misure antimafia, fin qui, sono stati proprio gli esercizi pubblici: dai primi di gennaio alla metà di marzo, oltre che al lussuoso ristorante sul grattacielo, la prefettura ha individuato contatti con la criminalità organizzata per tre caffè e una pizzeria napoletana dalle parti di piazzale Loreto, la Frijenno magnanno, accusata di legami con un clan di Camorra. In questo scorcio d’anno, altre chiusure sono andate a colpire un negozio di tatuaggi, una gioielleria del centro e un vivaio di piante e fiori.

Pochi mesi fa, il Corriere della Sera ha raccontato la storia di una delle tante vittime della mafia.

F. O. è un quarantenne milanese che oggi vive quasi da recluso, nel suo piccolo appartamento nella periferia nord di Milano. Aveva un bar, gli aveva dato il nome di un personaggio dei fumetti. Ma con i primi clienti ha dovuto fare i conti con gli emissari di un clan catanese. Cominciarono col pizzo, ma volevano il suo locale. «Mi chiesero 50mila euro, una cifra insostenibile». F. cominciò a nascondersi: «Fino a quando aggredirono mia moglie, la fermarono mentre passeggiava con i bambini, afferrandola per il collo. A quel punto decisi di denunciare tutto alla polizia». La violenza mafiosa si moltiplicò. Alle minacce si sommarono aggressioni e pestaggi. «Mi hanno sparato alle gambe, una volta mi hanno investito con l’auto, mi insultavano e minacciavano in continuazione, persino in tribunale». Lui però è andato per la sua strada, ha contribuito alla condanna dei suoi tre estorsori. «Ormai è passato qualche anno, eppure continuano a farsi sentire», dice mostrando i segni minacciosi comparsi su citofono e porta di casa. Ora è disoccupato, è difficile per una vittima di mafia trovare lavoro. Ma almeno spera che la persecuzione sia finalmente finita.

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