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Una volta sono stato a Napoli

Anche quell’anno erano delusi, addirittura un’annata fallimentare, lessi su un foglio, ascoltai in un bar. Erano arrivati secondi. Credo che chi arrivi secondo abbia sempre il diritto di essere deluso, ma non capivo gli isterismi.

Una volta sono stato a Napoli

Una volta sono stato a Napoli.

Non ci andai per innamorarmi, era di maggio. Un amico mi aveva detto che non ci avrei trovato nulla, la città era stata distrutta, devastata da un sisma, rasa al suolo da un’eruzione o inghiottita dal mare e ora tanti suoi frammenti vagavano per il Mediterraneo, tra barconi rivoltati e carcasse umane. Un altro tizio ci aveva scritto su un libro che raccontava di come il surriscaldamento globale l’avesse resa desertica e teatro di scontri tra fanatici islamici e indigeni.

Ci trovai la cartolina di sempre e restai, è vero, un po’ deluso.

Una volta sono stato a Napoli

Una volta sono stato a Napoli, era di maggio e a maggio, mi dicevano, sono tutti un po’ delusi, a Napoli, per motivi legati a quella che lì funge un po’ da religione, un po’ da svago, un po’ da lavoro (non immaginate a Napoli quanti disoccupati ci campano, sul calcio). Anche quell’anno erano delusi, addirittura un’annata fallimentare, lessi su un foglio, ascoltai in un bar. Erano arrivati secondi. Credo che chi arrivi secondo abbia sempre il diritto di essere deluso, ma non capivo gli isterismi.

Una volta sono stato a Napoli. In un sottoscala c’era un tizio, un avvocato o un professore, un matto. Mi raccontò vecchie storie che conosceva solo lui, immerso tra faldoni e libri ingialliti, in mezzo a un puzzo di muffa e con l’umidità che mi prendeva alle cosce. Di tanto in tanto la sua capuzzella emergeva da dietro a pile di carte. Stetti a sentirlo per un po’, poi mi addormentai. Ma lo sentivo pontificare anche in sogno. Urlava, si percuoteva il petto come un dannato: “Napoli non è morta! Napoli non è morta! Non è vero che Napoli non esiste più! Napoli… Napoli non è mai esistita!”. Quando mi risvegliai lo rinvenni accasciato sulla scrivania, ma non era morto, piuttosto era come ubriaco, ora biascicava parole senza senso, cianciava di Pulcinella e illusioni, maghi e stregoni, sirene e maglie restituite. Era un vecchio pazzo. Me la svignai. Mentre risalivo le scale, lo sentii cantare a squarciagola “Maradona è meglio ‘e Pelé…”. Poi una risata diabolica, inquietante, mi mandò il cuore all’aria.

Una volta sono stato a Napoli

Una volta sono stato a Napoli, visitai la, dicono, strabiliante nuova linea della Metropolitana, dietro consiglio di un mio amico che fa l’architetto a Berlino. Nulla da dire, bella. Mi annoiai dopo pochi minuti e presi la via del Rettifilo. Ci stetti per qualche ora, seguivo gli sguardi perplessi delle commesse, mi imbattei in qualche ragazzotto simpatico ma dai modi un po’ rozzi. C’era il sole. Più in là – lo avvertivo – il mare. Ma forse non era Napoli. Dicono che il mare non la bagni. Forse era un altro posto. Sono confuso. Erano uomini e donne in carne ed ossa, e muri, e rumori, e puzza di fritto dappertutto, eppure sembrava tutto un sogno. Ero stordito. Ora sono confuso. Ora sto ascoltando una canzone un po’ jazz un po’ Brasile che fa: “Ccà nun ce sta na lira, nun putimmo pazzià, tu staje for mano ‘a chesta vita mia, tu staje mmiez ‘o bbene e i’ miezz’ ‘a via “…

Una volta sono stato a Napoli, mi portarono allo stadio. La partita si concluse con un calcio di rigore, segnato, la vittoria della squadra locale. Il pubblico era spaccato in due, una parte giudicava il giocatore che aveva tirato un po’ insipido, l’altra sosteneva che il ragazzo avesse le palle. Il mio accompagnatore, assessore in una municipalità di periferia ma addobbato anche su quegli spalti come un ministro della prima Repubblica, mi vide perplesso e cercò di spiegare la ragione di quella divisione così netta: “È politica, guagliò, solo politica.”

Una volta sono stato a Napoli

Una volta sono stato a Napoli. Per cercare Napoli. Ero stufo dei racconti, troppi, inutili. Volevo vederla coi miei occhi. Prima di partire non avevo voluto leggere nulla, passai in rassegna solo tutti i film di Sergio Leone. Solo che a Napoli non c’erano cavalli. Al Centro Direzionale trovavo gente come quella che c’è ovunque, le stesse preoccupazioni in volto, la stessa frenesia.

Al Vasto, da una saracinesca semi aperta sbucava un giovane di colore che mi veniva incontro dicendo: “Hey friend, è forte Salvini, mi piace Salvini…”. E poi: “Il Napoli non ha vinto niente nemmeno quest’anno, my friend”. Mi spingevo allora fino a Stadera perché mi avevano detto che aveva a che fare coi cavalli, ci incontravo un vecchio con giubbetto blu Robe di Kappa di ordinanza. Mi diceva che un tempo lì erano tutti “cavallari”, poi sono passati alle macchine: furti di macchine, incidenti falsi. Dal cavallo al cavallo di ritorno, ridacchiava il vecchietto. Non aveva più fiducia che il Napoli vincesse qualcosa, almeno fino a che sarà vivo. Un ragazzo mi si avvicinava osservandomi incuriosito, si vedeva che era uno di quelli che vivono per strada. Mi porgeva uno spinello. Gli chiedevo che pensasse del Napoli. Stranamente mi rispondeva che se ne fotteva. Intanto mi faceva fumare. Era roba forte.

Mi trovavo a percorrere la città senza una meta. C’era un inseguimento, alla Starsky & Hutch, tra Via Poggioreale e Corso Malta. Ma a me veniva in mente un vecchio film con Massimo Ranieri e Yul Brinner coi due che a un certo punto si rincorrevano in auto a Napoli. Almeno così ricordavo. Arrivavo a Posillipo e scendevo fino alla scogliera di Giuseppone. Non c’era quasi nessuno e l’acqua era gelida, il mare faceva bigodini di schiuma come d’Inverno pieno. Due tizi fumavano e ascoltavano da un telefonino della trap cantata in dialetto, dentro c’erano “fratelli” e “sbirri”, quasi una cosa western insomma. Uno dei due mi raccontava che un magistrato era venuto ad abitare con moglie e figli nel palazzo del noto ristorante ed era riuscito ad ottenere che fossero messi a tacere i suonatori di bonghetti che da anni, di notte, infestavano gli scogli e turbavano la quiete di chi abitava i luoghi.

Mi addormentavo al sole

Sognavo. Ora i massi della scogliera erano coperti da tavole di legno e su quelle tavole c’erano tanti tavolini. Gli altoparlanti mandavano canzoni di Arbore e c’erano uomini con giacche larghe e donne con capelli cotonati che bevevano e mangiavano in allegria mentre il locale da cui partivano i piatti serviti era ubicato in una grotta. Nel sogno ero al suo interno e stavo parlando con un tipo che mi diceva di essere grande amico di Maradona. E infatti esibiva alle sue spalle una foto di lui col Pibe de oro. Era mezzanotte in punto quando partiva una batteria di fuochi d’artificio.

Sempre nel sogno, d’improvviso mi trovavo a Coroglio, al Lido Pola, non quello degli anni zero, diventato un centro sociale autogestito, e nemmeno quello degli anni ’70, quando ci giravano “Profumo di donna” con Gassman, no, erano gli anni ’90, in cucina c’erano delle vecchiarelle e io facevo a gara con la buonanima di Tato della sezione del PCI di Fuorigrotta a chi mangiava più farfalle panna e prosciutto – vinsi io, ci tengo a dirlo – mentre un altro, di fronte al paesaggio umano di puttane e mantenuti, parlava di un “fascino della lorduria”. Forse era luglio. Forse si doveva giocare Italia – Argentina al San Paolo. Chi fosse arrivato cento anni prima avrebbe trovato ad accoglierlo palme e fichi d’India ovunque, pergolati e taverne, insomma un pezzetto di oriente in occidente, e una religione, una campagna, un presepe, dal mare avrebbe visto giardini, parchi, villini, colline verdi. Ora aveva una città più o meno moderna tra le mani – si fa per dire, tra le mani. Una città moderna, è vero, ma ancora ruspante, pimpante, ruggente. Il cemento era il calcio, che univa la città vecchia e quella nuova, in mezzo, d’avanti, sopra, un capo carismatico, un illusionista, un Dio.

Una volta sono stato a Napoli

Una volta sono stato a Napoli. Solo una volta. C’era troppa pioggia, poi troppa luce, troppo sole, troppa gente, troppa malinconia, troppe grida, troppi maledetti, troppi maleducati, troppi clandestini, troppe cospirazioni, troppe simulazioni, troppe canzoni, troppo amore, troppi accattoni, troppi povericristi, troppi ipocondriaci, troppi monarchici, troppi anarchici, troppe zizze belle, troppe zoccole, troppi curnuti, troppi allenatori, troppi avanza ‘o pere, troppi statt ‘a casa, troppi juvemmerda, troppi i’ saccio a me, troppi i’ saccio a te, troppi io mi guardo il Chelsea, troppi è la città porosa, troppi Napoli è morta, troppi Napoli nun more mai, troppi funeralini, troppi hanno ragione al nord, troppi che hanna capì a via ‘e fore, troppi è na città ‘e merda, troppi essere napoletani è bellissimo. Così mi chiusi in casa nella speranza di ottenere un po’ di silenzio mentre fuori incasava l’acqua – così dicono lì – e inzuppava i panni stesi. Pure quelli mi parlavano, pure quelli.

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