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Angelo Carotenuto: «Napoli non è diversa, i tifosi sono frustrati ovunque. Il futuro del club è nei napoletani emigrati»

Intervista al giornalista-scrittore: «Sono laico su De Laurentiis, ma se oggi il Napoli comprasse Riva, direbbero che non sa calciare di destro. Sarà un calcio per ricchi, Napoli dovrà essere la squadra dei napoletani non di Napoli»

Angelo Carotenuto: «Napoli non è diversa, i tifosi sono frustrati ovunque. Il futuro del club è nei napoletani emigrati»

Angelo Carotenuto, giornalista, una vita alla Gazzetta, fino a qualche settimana fa responsabile della redazione sportiva di Repubblica. Ha scritto due romanzi: Dove le strade non hanno nome (Ad Est dell’Equatore, 2013) e La grammatica del bianco (Rizzoli, 2014). Napoletano, si è trasferito nella capitale ma senza mai distogliere completamente lo sguardo dallacittà e dalla squadra. Anche se lui stesso si definisce un “laico” su De Laurentiis.

Gli abbiamo chiesto la sua opinione sul difficile rapporto tra i tifosi del Napoli e il presidente e sulle continue contestazioni a questa stagione della squadra.

«Non restringerei il fenomeno al Napoli, vedo che è così dappertutto. Soprattutto quest’anno ho l’impressione che il calcio sia entrato nell’”anno della frustrazione”, nessuno è contento. A Torino criticano perfino Agnelli perché non hanno vinto la Champions e sentono di “meritare di più” dell’ottavo scudetto consecutivo, record mai raggiunto da nessuno. A Roma contestano Pallotta, a Firenze Della Valle, c’è un senso di frustrazione diffusa nelle tifoserie, come se le società di calcio e i tifosi avessero smesso di sentirsi dalla stessa parte. È come se parlassero due lingue diverse, la lingua del cuore e quella dei fogli Excel. Che il tifoso abbia difficoltà a capire i fogli Excel e i bilanci lo capisco, sinceramente il profilo del tifoso commercialista mi lascia spiazzato; quello che quando vendi Higuain si dispiace, lo capisco più di quello che dice “ok, però abbiamo guadagnato 90 milioni”».

Qual è il motivo della contestazione?

«Questo è lo stonamento di quest’anno, i tifosi non sono spiazzati davanti ad una cessione importante o un mercato fallimentare, ma lo sono di fronte a un risultato del Napoli che è pari se non migliore rispetto agli anni passati. I tifosi pretendono di “meritare di più” dopo un secondo posto  conquistato solo 8 volte e alla fine di un decennio che è il migliore della storia del Napoli. Negli anni 80’, quando il Napoli ha vinto il tanto decantato scudetto, ci sono stati stagioni in cui invece ha dovuto lottare per salvarsi, e anche gli anni 90’, scudetto a parte, sono stati anni balordi. Quella che si sta vivendo è la “frustrazione” di chi crede che tutto sia possibile.

Uno dei motivi di questa convinzione di onnipotenza nasce dal rapporto che c’è oggi col calcio. Quando ero bambino, l’unico modo per assistere ad una partita era andare allo stadio, adesso abbiamo tutti la possibilità di assistere alle partite comodamente da casa, e di poter vedere giocare molte più grandi squadre di quanto potevamo fare un tempo. Questo rapporto distorto con il grande calcio ci ha convinto che sia alla portata di tutti perché si gioca sotto i nostri occhi. Ci siamo assuefatti a cose straordinarie».

Questo calcio che non è alla portata del Napoli?

«Questo calcio è alla portata di pochi. Perché esige molti soldi affinché si possa gareggiare ad altissimi livelli. In Italia, il solco economico che si è creato tra la Juventus e le altre squadre di Serie A, è una delle spiegazioni degli ultimi cinque scudetti. Perché il Milan è crollato? Perché fare calcio costa. Questo è un grande monito per De Laurentiis che, avendo acquistato un Napoli fallito, sa già che è possibile fallire con il calcio. Ci sono esempi di squadre come le milanesi che, sebbene più ricche di Napoli, sono finite in bolletta senza che l’imprenditoria cittadina sia subentrata e sono state costrette a fare ricorso a finanze internazionali.

Per il calcio si sono svenati tutti, Cragnotti, Sensi, il Parma quando ha cercato di fare una grande squadra, Cecchi Gori. De Laurentiis ne è consapevole, perciò punta a tenere il Napoli all’interno di un comportamento finanziario esemplare, cosa che in teoria sarebbe obbligatoria per tutti dal momento che il fair play finanziario vieta di pompare soldi a dismisura in una società calcistica».

Quindi non è la differenza di punti rispetto all’anno scorso che può avere alimentato l’insoddisfazione dei tifosi.

«È solo un aspetto, che si è aggiunto al quadro di frustrazione generale del calcio, ma è una scusa. La frustrazione a Napoli si è venuta a creare perché si è capito presto che non ce ne era per nessuno in campionato e questa cosa si è riverberata sulla squadra; sono convinto che la cessione di Hamsik è stato il momento in cui la squadra ha detto “la stagione è finita”. L’abbandono del capitano è stato un motivo di perdita di motivazioni, il Napoli era fuori dalla Champions, con 10 punti di svantaggio dalla Juve e 10 di vantaggio sulla terza, restava solo l’Europa League, ma da quel momento sono cominciati i mal di pancia, come il malumore di Allan che voleva andare via.

Non credo che la differenza per i tifosi l’abbiano fatta i 91 punti, ma la figura di Sarri. Se è vera la cornice della frustrazione, molte tifoserie hanno ripiegato su finti primati, chi sullo scudetto del bel gioco, chi su quello dei bilanci, per non sentirsi perdenti e basta. Ai tifosi del Napoli piaceva essere tifosi di una squadra che l’Equipe definiva “la più sexy d’Europa”. Anche se erano secondi, potevano sentirsi superiori rispetto ad altri, a maggior ragione con un allenatore che parlava in sintonia con il mal di pancia del tifo. Percepivano Sarri come uno che puntellava la loro delusione e questo era un motivo per legarsi a lui, anche se i punti fossero stati 85».

Quali sarebbero allora i motivi della delusione?

«Spesso i tifosi si lasciano condizionare dagli slogan e purtroppo oggi in molti ci acculturiamo tramite i social media che danno voce a persone che seguono il calcio in maniera superficiale. Non che bisogna aver giocato in Nazionale per parlare di calcio, però è chiaro che spesso in alcuni ragionamenti prevalgono cose non vere, sono ragionamenti ombelicali senza un quadro generale di cosa stia accadendo nel calcio europeo. Anche lì ci sono squadre molto più ricche e blasonate del Napoli, che non vincono. Il Manchester United, ad esempio, è una delle squadre più ricche d’Europa, ma da quanto tempo non vince il campionato? Questo perché vince una squadra sola. Ma poi secondo i tifosi il Napoli doveva vincere lo scudetto proprio nell’anno in cui la Juve ha preso CR7? Oppure doveva fare almeno 91 punti? Sono risultati che si fanno una tantum. E poi a cosa sono serviti?»

C’è anche la questione dello stadio tra i motivi della proteste

«La questione dello stadio è solo un altro slogan. Prendiamo ad esempio il meraviglioso stadio del Tottenham, di cui oggi tanto si parla, la società sei anni fa decise che i soldi ricavati dalla vendita di Bale sarebbero stati investiti per avviare il processo che ha portato alla costruzione del New White Hart Lane. Ma è stato un percorso di sacrifici e scelte ben precise. Non dimentichiamo che la società quest’anno ha tenuto il mercato fermo per realizzare l’impianto e la stessa cosa fece a suo tempo l’Arsenal.

Quanti tifosi a Napoli sarebbero disposti ad accettarlo in cambio di un nuovo San Paolo? Lo stadio è una scusa che piace ripetere perché l’hanno sentita. Che cosa dovrebbero dire i tifosi dell’Atletico Madrid che hanno disputato due finali di Champions e quest’anno nel nuovo Wanda Metropolitano vedranno altri giocare la finale? Se lo stadio fosse una discriminante fondamentale, in Italia l’Udinese quest’anno avrebbe vinto lo scudetto. Quindi non basta neanche avere lo stadio, bisogna sapere cosa farci».

Quindi i tifosi ripetono solo slogan, ma non hanno un reale motivo per lamentarsi.

«Non è sempre così, però è vero che spesso i tifosi sembrano ciechi. Un altro slogan classico dei tifosi ad esempio è “manca un progetto”, “la società non cresce”, ma passare dalla C alla Champions non è crescita? Non significa avere un progetto? Ai napoletani questo è apparso scontato che avvenisse, ma non lo è. Quando c’è una caduta, non è scontato che si riesca a risalire, come sanno bene quelli della Pro Vercelli che vincevano gli scudetti quando il calcio era distante anni luce da quello di oggi. Ma hanno smesso di vincere perché sono mutate le condizioni del calcio; tra 4-5 anni, il calcio sarà cambiato ancora, ci sarà la “cosa del calcio”, usando un termine politico.

Un calcio fatto di franchigie, per cui le squadre saranno ammesse nel circuito solo in relazione all’importanza del brand, alla qualità delle strutture sportive e alla capacità di spesa globale dei tifosi. Ma tutto questo non è scontato, a Napoli ad esempio non c’è. Il brand del Napoli esiste solo dal punto di vista emotivo dell’attaccamento ai colori; per quanto riguarda le strutture, la questione stadio conosciamo tutti il San Paolo e l’interminabile discussione sul nuovo stadio; per la capacità di spesa dei tifosi, basta pensare alla percentuale di maglie “pezzotte” che sono in circolazione».

Non intravede nessuna possibilità per il Napoli di rientrare in questi circuiti?

«La possibilità che vedo per il Napoli è quella di pensarsi non più come la squadra di Napoli ma come la squadra dei napoletani e fare in modo che vi si raccolga intorno tutta quella parte della popolazione che è andata via dalla città e che dispone di una maggiore capacità di spesa. Se è vero che l’incasso dei biglietti ai botteghini per il Napoli varia tra i 15 ai 19 milioni di euro a stagione, significa che se il Napoli giocasse sempre a porte chiuse per recuperare queste cifre nel bilancio basterebbe vendere due volte Fernandez. Il che significa che gli incassi dello stadio sono irrilevanti per la società.

A Dortmund l’amministratore delegato del Borussia, che è una realtà molto simile al Napoli, mi spiegò “abbiamo capito che per provare a stare dietro al Bayern dovevamo fare crescere il marketing fuori dai nostri confini” e così sono passati dall’1% al 15% del merchandising all’estero investendo sull’idea che la squadra dovesse essere la più cool d’Europa

L’arrivo di Ancelotti si spiega proprio in quest’ottica, come accredito che il Napoli prova a giocarsi nella platea internazionale per entrare in un circuito da cui altrimenti rischia di restare fuori. In questa chiave vanno lette le nuove strategie di marketing, come il nuovo design delle magliette per renderle alla moda ed lo store su Amazon per aprire al mercato fuori dai confini della città. Ha fatto bene perché è l’unica strada per poter essere nella scia dei grandi brand del calcio ed essere preso in considerazione nella Super Lega, potendo dire “anche noi abbiamo un bacino di utenza globale e in Cina e in America vogliono vedere le nostre partite”. Per ora il fatturato del Napoli è ancora troppo legato alle cessioni dei giocatori e ai diritti televisivi».

Quindi la situazione del Napoli non è differente da quella di molte altre società calcistiche, perché allora tanta enfasi?

«Penso che a Napoli siamo abituati a guardare a noi stessi pensandoci sempre più speciali degli altri, invece queste cose succedono ovunque. Da questo deriva la sensazione di fallimento di questa stagione. Se il Napoli vendesse Koulibaly ,capirei che i tifosi si incazzassero. Quello che proprio non capisco è essere dispiaciuti per questa stagione, secondo me è un’impuntatura.  Se non si vince lo scudetto, nulla va bene.

Sono convinto che se il Napoli oggi prendesse Gigi Riva, direbbero che col destro non sa tirare in porta. In fondo per ogni acquisto c’è un commento pronto: se è forte dicono “se era forte ce lo davano a noi”, se è scarso “Solo uno scarso potevamo comprare”, quando invece non compra un calciatore ”il Napoli è stato incapace”».

Dalle sue considerazione appare che la figura di De Laurentiis non sia poi così centrale nella contestazione dei tifosi

«Ho una visione laica di De Laurentiis, perché, essendo andato via da Napoli provo a guardare le cose confrontandole con quelle delle altre città dove il calcio è parimenti importante. Non parlo del presidente per simpatia o antipatia perché, guardando il calcio per lavoro, provo a fare un confronto più globale.

Certo nella questione contestazioni sono centrali i suoi modi che non sono gradevoli. Se è vero che a volte i tifosi non capiscono i linguaggi dei fogli Excel, è vero che i presidenti hanno smesso di entrare in sintonia con la parte emotiva del pubblico. Sempre l’AM del Borussia mi raccontò ancora che, in una riunione con i venditori di birra nello stadio che discutevano per alzare il prezzo da 3,70 a 3,80, lui intervenne chiedendo perché volevano farlo sapendo che avrebbero incazzare i tifosi. Questo per spiegare che a volte si perde di vista che il tifoso non vuole essere trattato come un cliente».

 

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