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Enzo d’Errico: «La cosiddetta élite di Napoli contesta De Laurentiis perché ha il culo al caldo»

Intervista al direttore del Corriere del Mezzogiorno: «È una città che non ha cultura imprenditoriale. I napoletani stile ultras pretendono di comandare l’azienda con i soldi degli altri».

Enzo d’Errico: «La cosiddetta élite di Napoli contesta De Laurentiis perché ha il culo al caldo»

Ha cominciato a Paese Sera, da sempre riferimento napoletano del Corriere della Sera e da quattro anni è direttore del Corriere del Mezzogiorno. Enzo d’Errico conosce e racconta Napoli da tempo. Ha scritto prevalentemente di politica, eppure il calcio è una sua grande passione. Il calcio e il Napoli. Tante ne ha viste, come un vero tifoso. E continua a seguire quel che accade sia in campo che fuori. La scorsa settimana ha scritto un editoriale sulla realtà virtuale dei tifosi del Napoli che contestano la squadra. E non c’era ancora stato l’episodio di Callejon a Frosinone.

Partiamo proprio da qui nella conversazione del Napolista con Enzo d’Errico.

«L’episodio di Frosinone è solo l’epilogo di una vicenda lunga che si trascina da anni, di frange di ultrà che contestano sempre e comunque il Calcio Napoli. Credo che la contestazione abbia varie radici.

La prima, direi, di carattere nazionale: nel Paese si respira un clima di illusioni e promesse, una realtà virtuale dove ciascuno racconta la storia che gli fa più comodo e dove i dati del reale sono eventi scomodi da mettere sotto il tappeto.

Napoli da sempre amplifica, e spesso anticipa, quel che riguarda l’intera nazione, sia dal punto di vista politico che culturale. Accade anche oggi. Favoleggiamo di una città  regina del turismo e poi scopriamo che è soltanto 16sima nella classifica italiana dei siti più visitati, sbandieriamo ai quattro venti l’immagine di una Napoli rinata tacendo del fatto che qui mancano i servizi pubblici più elementari, dai trasporti  all’assistenza ai disabili e alle classi più deboli.

C’è poi la seconda radice, che s’intreccia alla prima, e nasce dalla cronica assenza di una cultura imprenditoriale. Abitiamo una città in cui l’industria è storicamente sovvenzionata dal denaro pubblico – basterebbe pensare a ciò che fu l’Ilva di Bagnoli – e in cui l’impresa privata non è mai divenuta la spina dorsale dell’economia e della cultura. I risultati di questo mancato sviluppo sono sotto i nostri occhi, perché la cultura imprenditoriale ha il progresso nel suo Dna, comporta l’esistenza di uno scontro sociale e di un confronto che sono i presupposti fondamentali per qualunque avanzamento sociale e civile. Non a caso, infatti, Napoli fatica ad assimilare un esempio di cultura imprenditoriale qual è il Calcio Napoli, anzi lo respinge come un elemento estraneo ai suoi codici.

Vogliamo dire che De Laurentiis non è particolarmente affabile, che a volte risulta perfino antipatico? Nessun problema. La realtà, tuttavia, è a suo favore e parla di una squadra che da dieci anni è stabilmente nell’élite del calcio italiano ed europeo. Qualcuno può negare che tale risultato indichi una costanza di rendimento mai vista prima da queste parti? Invece è proprio quanto succede in alcune frange della tifoseria. In un’impresa seria la costanza delle sue performance è sinonimo di successo, mica di fallimento…

In una dinamica del genere, appunto, rientra l’odiosa contestazione di domenica che ha colpito Callejon, ossia un giocatore che ha sempre fatto il suo dovere, guadagnando lo stipendio con il sudore della maglia e la qualità delle prestazioni. Siamo di fronte al simbolo di un calcio onesto, che con il suo lavoro ripaga ciò che riceve. Una parte di Napoli, rappresentata dai nuovi lazzari, è abituata soltanto a ricevere senza dare nulla in cambio. Purtroppo è il frutto malato del clima politico attuale».

Eppure, come ha ricordato anche lei in un tweet, i tifosi sono convinti di meritare di più. In base a cosa?

«Parliamo di persone che, poco tempo fa, inneggiavano a Genny ‘a carogna, un personaggio oggi in galera per traffico di droga. Il loro discorso è: “il Napoli appartiene ai tifosi che pagano il biglietto e lo seguono ovunque, anche sotto la tempesta”. Ma sono parole prive di senso. E’ come se io dicessi: “siccome guardo la televisione ogni sera e pago il canone, la Rai è mia”. Posso decidere se mi piace o meno, ma non posso affermare che è mia.

Ecco perché credo che uno dei grandi meriti di De Laurentiis, forse il più grande, sia quello di aver isolato queste frange di tifo. Oggi, a meno di smentite, il Napoli è una delle poche società che non ha rapporti con il popolo delle curve. Ha innalzato un muro che la separa da questi signori, i quali però pretendono di dettare la linea e alzano la voce non riuscendo a uscire dall’isolamento che De Laurentiis gli ha creato intorno. Preferiscono invocare il “tutto e subito” che ricalca, per certi versi, l’antico motto borbonico “festa, farina e forca”. Dobbiamo vincere lo scudetto, chi se ne importa se poi l’anno dopo finiamo in serie B o falliamo…

C’è un vecchio film, “Pane e cioccolata” di Franco Brusati, in cui Nino Manfredi, emigrante, torna a Napoli deluso dalla sua esperienza in Svizzera e nel viaggio in treno s’imbatte in un altro napoletano che, leggendo la disperazione nei suoi occhi, gli canta “scurdammoce ‘o passato, simm’e Napule paesà”. E’ una scena che rispecchia perfettamente la mentalità con cui si vive in questa città. A nessuno importa quel che avviene il giorno dopo, nessuno insegue un progetto: si campa alla giornata, poi domani si vede…

Il Napoli di De Laurentiis è su un’altra dimensione. Parliamo di un’impresa economica, come previsto dalla riforma Veltroni. Altro che calcio romantico, del quale si vagheggia a sproposito… Tranne la breve parentesi con Vinicio allenatore e i pochi anni dell’era Maradona, in cui abbiamo vinto due scudetti e una Coppa Uefa con una gestione societaria dissennata della quale poi abbiamo pagato le conseguenze, nessuno ricorda che in quel calcio eravamo quasi sempre a metà classifica, se non addirittura a lottare per non retrocedere? Ci dicessero questi signori cosa pensano che succederebbe se andasse via De Laurentiis: chi verrebbe al suo posto? Non vedo sceicchi né imprese orientali all’orizzonte, e non mi sembra che a Milano proprietà del genere stiano facendo cose straordinarie. Come dimenticare, poi, la Juve che ha speso un patrimonio per Cristiano Ronaldo senza riuscire a vincere la Champions… Davvero gli ultras pensano che il presidente debba essere un benefattore che compra Messi e manda sottosopra le sue aziende per compiacerli? Questo è davvero il peggiore degli stereotipi napoletani, un laurismo di ritorno che nel 2019 appare insopportabile».

La vecchia arte d’arrangiarsi.

«Siamo oltre l’arrangiarsi, siamo in un totale disconoscimento della realtà. Per cui pretendi calciatori che non potranno mai arrivare. Cosa dovrebbe dire il Real Madrid che domenica ha perso in casa col Rayo Vallecano? E il PSG che vince campionati ma non riesce a sfondare in Champions? I loro tifosi, secondo questa logica, dovrebbero mettere gli stadi a ferro e fuoco… La semplice verità è che non basta comprare per assicurarsi la vittoria. Né serve invocare il Messia di turno, come più volte è successo e ancora succede nella storia di Napoli, a cominciare da quella politica. Prendiamo il caso Salvini: fino a qualche anno fa, intonava cori beceri contro i napoletani e oggi viene osannato come il salvatore. E’ una storia che si ripeterà sempre, finché la città non avrà un’idea di se stessa e di cosa sarà da qui a trent’anni, una programmazione appunto, con persone preparate, competenti, che lavorano alla realizzazione progressiva di questa idea. Viviamo, al contrario, nella perenne ricerca dei viceré che ci riscattino dai problemi, invece di affrontarli noi in prima persona. Lo Stato è percepito come altro da noi, l’unica identità che sembra avere diritto d’asilo è quella oleografica da offrire ai turisti mordi e fuggi. Insomma, manca la modernità».

Secondo lei, perché Adl è così odiato. Non solo dagli ultras, ma anche da fette produttive della città. Da dove nasce tutta questa avversione?

«Qui credo che conti molto il suo carattere ostico e talvolta arrogante. Ma va detto che la cosiddetta élite napoletana si può permettere di fare l’ultrà, osteggiando De Laurentiis, perché ha il culo al caldo. Non rischia alcunché, come suo solito. Il napoletano ha lo sguardo ampio quanto il recinto dei propri interessi. Non gli importa un fico secco che il Calcio Napoli sia un’impresa capace di portare a casa risultati e che quindi, come tale, andrebbe indicata come esempio in un posto dove ben poco funziona. Fa più chic essere contro. Sia chiaro, il presidente azzurro merita pure qualche critica. Io, tanto per dirne una, credo che sbagli clamorosamente a non creare strutture adeguate per il settore giovanile, a puntare sulle plusvalenze invece di investire sui calciatori da allevare. Ma è un appunto di carattere imprenditoriale che gli consiglierei di trascurare: lo contestano così, figuriamoci se si dedicasse di più alle squadre degli allievi…».

Lei è piuttosto pessimista.

«Realista, direi. L’aspetto drammatico è che non si intravede nulla all’orizzonte. Tra un anno, forse, potremmo ritrovarci a votare per il Comune di Napoli e siamo al grado zero della discussione. Nulla si muove, nessuno si interroga. Tutto va avanti giorno dopo giorno, senza un progetto e senza un’idea. Risultato: oggi i notabili, che sono la fibra forte del tessuto economico vesuviano, sono più ricchi di ieri mentre la povertà tracima anche negli ambienti borghesi d’un tempo. Nessuno lo dice ma, secondo me, Napoli è la città più classista d’Italia. Là dove i servizi pubblici elementari non esistono, fatalmente hanno la meglio i ceti abbienti. Non passa l’autobus? Se sono benestante, me ne frego e prendo il taxi. Ma se non mi posso permettere un’alternativa, vengo ulteriormente penalizzato da questo sistema».

È la domanda che alcuni si pongono: si contesta il Napoli, ma non ci si mobilità contro una metropolitana che passa ogni 12 minuti.

«Perché non c’è quel tessuto civile che soltanto l’impresa può far nascere. Un’azienda sana crea lavoro, genera confronto sociale, fa crescere l’identità culturale del territorio ed è la premessa indispensabile per dar vita alla redistribuzione della ricchezza. Questo è il sale del progresso, il codice genetico della modernità. A noi, invece, basta la retorica di Napoli città bellissima, della sua presunta unicità. E sotto questa coltre ci accoccoliamo, pavoneggiandoci di una mitologia antropologica che, in realtà, ci serve per coltivare nell’ombra il nostro particulare. Chi avrebbe la forza per protestare preferisce rimanere in silenzio, perché protestare significa mettere in discussione gli equilibri e alterare i dosaggi di quel potere con cui abbiamo stretto un patto di complicità».

La freddezza nei confronti di Ancelotti come la giudica? È colpa del suo aziendalismo?

«Credo che Ancelotti abbia commesso un grave errore a venire a Napoli. È una figura estranea alla retorica culturale di questa città, che si infiamma soltanto con i masanielli. Sarri era un masaniello. Quello che i tifosi dimenticano è che della sua epoca negli almanacchi rimarrà un secondo posto; di Ancelotti un secondo posto e i quarti di finale di Europa League, tutto ciò soltanto al primo anno. Viviamo a ruota di comandanti, masanielli e di quelli che si schierano contro De Laurentiis. Ancelotti è un signore che ha garbo, educazione, competenza calcistica e parla chiaro. Come tutti quelli che percepiscono uno stipendio, rispetta il datore di lavoro. Parlo di rispetto, non di ossequio. Se non stai bene alla guida di un’azienda, prendi e te ne vai. Siamo all’abc. I napoletani stile ultras, al contrario, pretendono di comandare l’azienda con i soldi degli altri e ad andarsene, casomai, deve essere il titolare, non loro. È la vecchia storia del cosiddetto posto fisso…».

E i giornalisti? Secondo lei hanno un ruolo in questo clima che c’è attorno al Napoli?

«Il mondo dello sport, ancora più degli altri, è l’esempio del paradosso che vive il mondo dell’informazione. Chiunque abbia uno smartphone, può consultare decine e decine di siti, navigare tra i social e avere tutte le notizie che desidera. Ma quante di queste notizie sono vere? Quante sono il frutto di un lavoro che risponde a criteri di professionalità? Poche, purtroppo. Questo fenomeno riguarda tutto il mondo dell’informazione, ovviamente. Ma nel settore sportivo è ancora più presente dato che parliamo di un argomento molto popolare. Tutti discettano su tutto. Per fare il giornalista, invece, devi maturare una professionalità che si crea attraverso l’esperienza, i controlli delle fonti, la deontologia. Mica un giorno ti svegli e decidi che sei un cronista di calcio… Travolti da questa valanga di informazioni, rischiamo di essere sempre più disinformati e di abbandonarci a quella realtà virtuale di cui parlavamo all’inizio. Viviamo in un mondo in cui nessuno si rende conto che un giornale costa poco più di un caffè e fa decisamente meglio alla salute. Pensateci: quante volte al giorno entriamo in un bar e con disinvoltura beviamo un caffè, senza star lì a pensare che stiamo sborsando un euro? Allora perché davanti a un’edicola ci blocchiamo e pensiamo: vabbè, il giornale non lo compro così risparmio, e poi c’è internet che mi dà le notizie gratis… Ma davvero qualcuno crede che sia la stessa cosa?».

Come si esce, qualora si potesse, da questa situazione?

«Napoli non può fare tutto da sola, è ovvio. E’ un discorso che riguarda l’intera comunità nazionale. Da parte mia, non coltivo soverchie illusioni. Diciamo che mi affido a una testarda speranza, nonostante veda la città sempre più rinchiusa in piccoli recinti, fondata essenzialmente sul notabilato, una struttura chiusa che si tramanda di padre in figlio senza offrire opportunità fuori dalla sua cerchia, senza contaminarsi con il resto della società. Napoli è popolata di professionisti che vivono le proprie ricchezze nell’ombra ma non producono ricchezza per gli altri. Non c’è una classe dirigente capace di invertire la rotta in nessuno schieramento politico. Il massimo che siamo riusciti a esprimere è un sindaco come de Magistris, un uomo senza dubbio onesto ma che rispecchia l’anima più stantia dei napoletani, il loro sostanziale anarchismo. A conti fatti, un ultrà della politica che, per non guardare in faccia la realtà, se ne inventa un’altra a suo uso e consumo».

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