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Contro l’allegrismo: un modo di stare al mondo senza epica, a gestire il proprio privilegio

Il mondo progredisce grazie a chi sacrifica la propria vita in nome di qualcosa di superiore o di collettivo. Non con chi specula sulla propria posizione di vantaggio

Contro l’allegrismo: un modo di stare al mondo senza epica, a gestire il proprio privilegio
Photo Matteo Ciambelli

John Nash e Alan Turing

Ci sono non più di quattro strade per arrivare alla verità e alla “novità”, e anzi alla loro scoperta o invenzione: il colpo di culo,   l’intuizione, la costanza e l’ossessione.

Quattro strade che identificano sia il procedimento attraverso cui trovare ciò che si cerca, sia soprattutto la qualità dell’uomo  grazie alla cui attività o al cui pensiero si arriva alla relativa scoperta.

Perché a seconda del fatto che si giunga a questa attraverso il semplice colpo di culo o attraverso una vita spesa a inseguire la propria idea, e quindi – in quest’ultima ipotesi – ai sacrifici, alle restrizioni e alle diminuzioni di libertà e godimenti che ciò comporta, si ingenerano nello “spettatore” due sentimenti alternativi ed opposti.

Da un lato, e in particolare verso l’uomo che “scopre” o inventa grazie a un semplice colpo di culo o alla semplice intuizione, c’è nello “spettatore” il sentimento dell’invidia e dell’immedesimazione del portafoglio.

L’ossessione della ricerca

Dall’altro, e in particolare verso l’uomo che “scopre” o inventa dopo una vita ossessionata dalla relativa ricerca (e quindi dopo sacrifici, sforzi, rinunzie e compressioni di libertà e godimenti) c’è nello “spettatore” il sentimento dell’immedesimazione dell’anima, e cioè della stima, della tenerezza, della complicità che sempre contraddistingue l’essere umano quando tocca con mano la vera sofferenza del proprio simile e quando – in buona sostanza – ha a che fare con l’epica.

Esatto, l’epica, da intendersi quale capacità di compiere il sacrificio della propria vita in nome di qualcosa di superiore o, quanto meno, di collettivo, perché è agli altri che restano i frutti della scoperta.

Perché, d’altronde, la storia della cinematografia avrebbe esclusivamente celebrato le vite sofferte dei geni arrivati alla verità nonostante tutto e tutti (come il John Nash del film “A beautiful mind”, come l’Alan Turing del film “The imitation game”, e gli esempi potrebbero andare avanti all’infinito) se non si fosse attratti dall’epica della sofferenza? Perché in quelle vite c’è tutto l’eroismo e tutta la magia di chi si sacrifica per arrivare a quello che sogna, quello che insegue nella ricerca del nuovo che si è dato.

Questa è, dunque, l’ambivalenza che contraddistingue noi umili “spettatori”: invidiare l’uomo che scopre ciò che cerca per semplice intuizione o colpo di culo perché tutti noi, in superficie, ci auguriamo una vita di pochi sforzi per il massimo risultato, ma invece stimare l’uomo che trova ciò che cerca dopo una vita di sacrificio, perché tutti noi, in fondo, siamo partecipi della sofferenza della vita sacrificata alla ricerca del vero e tutti noi vorremmo avere il coraggio di una simile scelta.

La gestione della propria maggiore forza contrattuale

Ecco, questa divagazione sull’epica dell’ossessione e dei sacrifici che ne conseguono mi ha fatto venire in mente la partita di ieri della Juventus, ed anzi l’atteggiamento che la Juventus di Allegri pratica ormai stabilmente.

L’atteggiamento di chi, nascondendosi dietro la paratia della praticità, in realtà declina quella sterile, vigliacca e pressappochista abitudine alla semplice gestione del proprio privilegio, quella povera (di intenti) e codarda dimensione in cui vive l’uomo che per arrivare al risultato nemmeno ha bisogno del primo e secondo dei percorsi di cui sopra (il colpo di culo o l’intuizione), perché gli è sufficiente la posizione di supremazia che i capitali sociali ed economici ereditati dal proprio pigmalione gli hanno messo a disposizione.

Questo è l’“allegrismo”, altro che palle.

Non è praticità o “praticismo”, concetti comportamentali in grado di esistere solo quali categorie eccezionali rispetto al generale e lungo cammino di sacrificio che la vita impone, e non certo quando vengono declinati quotidianamente per arroccarsi in difesa delle proprie posizioni di privilegio sociale ed economico.

E non è nemmeno “semplicismo”, e cioè quell’auto-referenziale atteggiamento di chi pensa di poter spiegare a chi spiega che ciò che spiega è immotivatamente difficile, perché tutto alla fine tende al 2 + 2 = 4.

No.

L’ “allegrismo” va oltre, si nasconde dietro questa facciata narrativa ma è ben altra cosa; l’ “allegrismo” è quell’atteggiamento di chi si limita a gestire la propria maggiore forza contrattuale, il proprio e maggiore peculio (che in quanto tale deve tuttavia la propria esistenza a lasciti di terzi, e nemmeno ai meriti di chi lo gestisce) senza altro modo se non quello di lasciare che il proprio ciclo di vita si compia autonomamente ed in modo “alieno da sé”, senza il benché minimo sforzo nell’indirizzare il cammino di ciò che ci si è limitati ad ereditare, giustificando la propria presenza non quale vero e proprio indicizzatore del proprio destino (vincente in quanto già scontato sul nascere), ma quale semplice  vigile urbano che si limita a comunicare alla propria squadra il segnale di partenza quando arriva il verde.

Questo, e non di più.

Ed allora, per carità, si può anche scegliere di celebrarlo l’ “allegrismo”, in nome e per conto della sana invidia che si prova davanti a chi arriva al traguardo senza sforzi o comunque senza conferire alcun sacrificio di vita, proiettando la propria esistenza in  quella dimensione in cui tanto si vorrebbe che tutto arrivasse facile e già pronto all’uso.

Si può anche scegliere, nel rapporto di giudizio di valori tra punti di partenza e punti di arrivo che contraddistingue l’analisi di ogni prodotto umano, di sposare la tesi per cui ciò che conta è il traguardo finale, dimentichi del fatto che dietro ogni punto di arrivo c’è un percorso per arrivarci, e che i percorsi sono tali perché costituiti dai modi attraverso cui si arriva alla striscia dell’arrivo finale, e non solo dall’attraversamento della stessa.

Sostituire Cancelo con De Sciglio

Si può anche celebrare il mito del “praticismo”, quello che ti fa sostituire Cancelo con De Sciglio non appena percepisci un minimo di difficoltà non preventivata (eh già, perché Cancelo lo avresti tenuto in campo in 11 contro 10), che ti fa posizionare tutti i tuoi uomini dietro alla linea del pallone, peraltro non vedendolo mai come una qualsiasi provinciale di terza serie, che ti fa andare ogni domenica in campo facendo si che se la giochino “loro” (e cioè quelli che alleni) e senza mai la declinazione di una minima idea o identità di gioco pre-stabilita, di una qualche minima azione corale in cui fai vedere che in settimana hai quanto meno provato almeno un paio di movimenti che legittimano il tuo ruolo di allenatore, e così via.

Lo si può celebrare, ma così facendo si commette un inammissibile errore di visione storica dei comportamenti umani.

Perché è, questa, una filosofia che il mondo lo tiene fermo allo status quo, alle posizioni di chi nasce dominante, di chi specula sul proprio privilegio, di chi non ha bisogno di soffrire per conferire nulla di sé, perché ci pensa la forza del peculio ereditato.

E d’altronde, ve lo immaginereste, voi, un mondo passato popolato solo da soli approcci “alla Allegri”, dal principio del minimo sforzo per il massimo risultato, invece che da approcci come quelli declinati da Fleming, Einstein, Galileo o tutti quegli altri che epicamente la propria vita l’hanno spesa e vissuta in vista dell’ossessionata ricerca della novità e della verità che sognavano di raggiungere? Sono, questi, uomini a cui è bastato il privilegio ereditato, o uomini che hanno provato ostinatamente a raggiungere la propria idea del vero, ad ingaggiarsi quotidianamente con il coraggio della declinazione di un’idea di nuovo? Dove saremmo andati a finire senza le ossessioni di questi grandissimi che nel corso dei secoli mai si sono accontentati ed hanno proiettato la loro e la nostra vita anni luce avanti grazie alla propria ossessione?

Da nessuna parte, perché il “praticismo” (quello con cui si sta fermi in attesa dell’errore altrui) od il semplicismo” (quello con cui si cerca di spiegare l’ovvio ai soloni della tattica: “si vince perché si è più forti”, dimenticandosi che così facendo si mette nell’angolo proprio la figura dell’allenatore per cui si è pagati) sono fattori umani che cercano di  immobilizzare ciò che invece l’ossessione tende a fa muovere verso il futuro.

Ed allora, eccolo spiegato il motivo per cui Allegri – con tutto il suo “allegrismo” – è un uomo solo e nervoso.

Perché conosce e riconosce la storia, perché sa benissimo che nessuno mai gli riconoscerà un vero ed effettivo merito sportivo, e perché sa benissimo lui per primo che limitarsi alla gestione del peculio è altra – e minore – cosa rispetto all’epica del sacrificio di chi alla vittoria arriva con l’ossessione delle proprie innovazioni ed idee.

Ed è questo, si badi bene, il motivo per cui ieri ho nutrito vergogna per chi ha vinto.

Perché vincere in questo modo risulta offensivo non agli occhi dell’esteta, ma appunto agli occhi dell’uomo che si commuove davanti al sacrificio dell’epica, del nuovo, dell’idea.

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