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Dietro l’odio per Napoli non c’è la presunta diversità, c’è Odessa

Napoli è una città omologata, come le altre. Nel libro su Odessa, King descrive un luogo costantemente autoassolutorio come il nostro. È la paura dell’informe

Dietro l’odio per Napoli non c’è la presunta diversità, c’è Odessa
La città di Odessa

Da dove nasce questo odio?

Il tema principe di questi giorni è l’odio per Napoli: la sua esistenza non è certo in discussione, è realtà storica e di cronaca acclarata. Il livore degli stadi italiani per tutto ciò che riguarda gli azzurri, dentro e fuori il campo, va molto al di là del mondo ultras, attraversa trasversalmente la società civile, ha a che fare con una pulsione violenta e tipicamente soppressa dell’uomo “normale”. Il vero tema è: da dove nasce, questo odio?

La teoria più popolare e spendibile è nota: a Napoli siamo tutti assediati e l’Italia ci odia perché siamo diversi, siamo una scheggia impazzita di sentimenti e originalità in un mondo omologato. Non stupisce che a corroborare la tesi, che definirei ormai accademica visto la sua trattazione secolare, spiccano, tra i tanti, De Giovanni e Sarri: d’altra parte essa è il veicolo principale per la buona riuscita di un best seller e la prova provata del miracolo svanito a causa delle forze del male.

Quest’anno ci saluta una interessante variante sul tema, una nuance nuova: lo striscione di benvenuto per i napoletani emigranti che campeggia a Piazza Garibaldi. Scritto con un font che distingui tra tutti – lo stesso che trovi negli striscioni di questi movimenti politici di gran moda oggi, chiamati “sovranisti”, e magari anche di qualche frangia di tifo da stadio – è stato salutato con spirito commosso da Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale dei Verdi (dunque una forza di sinistra), come una forte risposta popolare e di cuore al governo destrorso e populista che affama il sud. Nel duemiladiciotto, quasi duemiladiciannove, in una piazza intitolata al più internazionale e apolide degli eroi nazionali, c’è bisogno di scrivere su un pezzo di tela un benvenuto ai figli del meridione, strappati dal nord (che ci odia) alle terre del sud, che tornano su treni ad alta velocità che coprono Milano-Napoli in 4 ore e 15 minuti. Roba che Cristoforo Colombo impallidirebbe.

Città fondata da un napoletano

A guardar meglio, Napoli è una città mediamente omologata come quasi tutte le altre. Non può dunque essere questo il motivo dell’odio. Essa contiene qualche elemento di eccezionalità, certo, ma niente di sistemico o di drammaticamente diverso dal resto del mondo. Né nella società civile, né nella sua intellighenzia, né tra i propri tifosi. Si prenda il tweet di Sorbillo che, per solidarizzare con Koulibaly e condannare i cori razzisti, si dipinge addirittura la faccia di nero, finendo col portare sull’altare nientemeno che Blackface in persona – ultimo fatto di cronaca che non dimostra certo una volontà discriminatoria da parte del famoso pizzaiolo, ma un aspetto altrettanto significativo nel contesto dell’omologazione: l’ignoranza. Omologato è anche il tifo – quello estremo, degli ultras, che vivono un mondo isolato e autoreferenziale identico in ogni parte d’Italia e del mondo, tanto quanto quello dei semplici tifosi non militarizzati, molti dei quali sono contrari a fermare le partite di calcio per protestare contro i cori razzisti, ritenendolo un gesto di debolezza, considerando quelle ingiurie codici di guerra da lavare sul campo di battaglia.

Salutando con ogni scetticismo possibile, dunque, tutte le sopradescritte incarnazioni del vittimismo di comodo, vero figlio dell’omologazione, la strada migliore per spiegare l’odio per Napoli è cercare altrove un senso riflesso di ciò che viviamo, distanziandoci per un attimo dalla nostra esperienza immediata. Ho trovato incredibilmente illuminante, a tal proposito, un libro di Charles King, Odessa – Splendore e tragedia di una città da sogno. La città sul Mar Nero, oggi ucraina, fondata da un napoletano e, secondo la tradizione, luogo in cui di Capua scrisse la canzone ‘O sole mio, rappresenta quasi un condensato della storia di Napoli, della quale condivide alcuni tratti salienti: il mare, il porto, la sua struttura aperta alle invasioni, l’essere una città sempre fuori tempo e dunque difficilmente gestibile, l’odierna natura sostanzialmente crepuscolare, l’apparire sempre un luogo sognante, l’avere un passato dal peso insostenibile. Oltre alla natura sghemba degli slavi, per molti versi assimilabile alla nostra: «un umorismo leggero, l’ironia combinata alla tenerezza, una sorta di nostalgia sentimentale e apertura e semplicità, che si riflettono nell’acutezza di giudizio verso il mondo esterno».

Il fascino della nostalgia

Il libro è un potente strumento di indagine su chi siamo, perché ci dà modo di capirci senza prima giudicarci. Odessa, come Napoli, è stata sempre considerata – e a volte lo è stata – un obbrobrio civile ed istituzionale a cielo aperto. Un blocco, magmatico e talvolta purulento, di strana umanità che si abitua, col tempo, ad ogni sopruso, inflitto o subito. La storia odessita è una storia di sangue: sono soprattutto gli ebrei, oltre che i russi, gli italiani, gli ucraini, a rendere la città del Mar Nero un monolite di intrecci culturali; e sono proprio gli ebrei i più massacrati: dal mondo esterno, si chiami esso nazismo rumeno o comunismo sovietico; e dal mondo interno, dagli odessiti stessi, per delazione. Guerra e distruzione sono nati al di là dei confini, ma sono cresciuti in modo virulento anche tra le mura della città, e gli odessiti, come i napoletani, raccontano questa epoca di sangue come un’era d’oro – si direbbe che essi sono, come noi, dei vittimisti, dei subdoli agiografi di se stessi.

Uomini e donne che, dice l’autore King, “alle sfide del cosmopolitismo, hanno preferito il fascino della nostalgia”. Con un tratto egli dipinge sia Odessa che Napoli, spiega la complessità del loro tessuto, destinate come sono ad avere sempre torto e perciò ad essere un riferimento morale per il mondo, come la massa in un circuito elettrico, come lo zero assoluto in una scala termometrica: il nord, il sud, i gerarchi nazisti come i funzionari sovietici hanno bisogno di sapere che c’è sempre una zona franca prima di un muro invalicabile, un postribolo di anime improbabili prima del confine netto e sorvegliato, in cui queste realtà sono eternamente confinate per mantenere il giusto livello di sicurezza.

D’altra parte, luoghi come Odessa e Napoli non esistono, se non nei ricordi romanzati. Questi sono spazi reali in cui gli uomini hanno preferito la nostalgia al domani, continuando a raccontare di un passato depurato di ogni bruttura, figlio del revisionismo di comodo che ha cancellato il dolore dei terzi, dei diseredati e degli oppressi veri che pure sono stati la linfa vitale di queste città – in oriente si massacravano gli ebrei, nei vicoli napoletani ci si arricchiva col sangue della borsa nera – per “una ferrea volontà di ignorare quello che succedeva davanti ai propri occhi”. Odessa e Napoli sono luoghi dell’animo, niente altro.

È una realtà eterea e costantemente autoassolutoria

Dunque, cercando di dare una risposta alla domanda iniziale: da dove scaturisce l’odio contro questa città? Dal suo essere una realtà eterea. Colpevole e costantemente autoassolutoria. Capace di romanzare persino le mattanze camorriste ed i massacri dei ghetti, sempre in un brodo caotico inquietante. Ed è l’inquietudine che genera l’odio, a mio avviso. Le persone odiano l’informe perché temono, in fondo, di poterlo essere. E sono pronte a fischiare, a mostrare i denti, ad azzannare, ad arrivare fin dove la storia glielo consentirà perché questa sete di distinzione dall’informe abbia fine. Ne ha bisogno chi è al di là del muro, a San Siro, e sente intaccata la labilissima autostima su cui ha costruito un’esistenza; ne ha bisogno chi è al di qua, e sente in pericolo lo stato di torpore sociale organizzato per bande (il borbonismo culturale) di cui si ciba ogni giorno.

Chi può salvarci dall’odio? Personalmente, non lo so. E dubito persino che la Thatcher abbia avuto il successo che tutti le riconoscono, a tal proposito. Io suggerisco, senza alcuna pretesa di essere nel giusto, la lontananza.

“Dopotutto, i figli e i nipoti degli ucraini, dei russi e di quelli che si sono insediati in città dopo la Seconda guerra mondiale, accanto agli immigrati dalla Turchia, dal Caucaso, dal Medio Oriente e all’Asia orientale, ora hanno la possibilità di costruire la loro versione di «Mamma Odessa», diversa da quella degli scorsi due secoli, ma non meno completa. Come i parigini, i berlinesi, i viennesi e i newyorkesi, essi possono perfino convincersi di qualcosa che le generazioni passate di odessiti sapevano istintivamente: che con la giusta combinazione di cordialità e di caos, le città possono rappresentare il massimo livello di patria

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