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La sottile differenza tra Salvini e Margaret Thatcher

Il ministro dell’Interno annuncia che convocherà i capi tifosi al Viminale, dice che negli stadi non è razzismo ma sano sfottò e di Koulibaly che lo vorrebbe al Milan

La sottile differenza tra Salvini e Margaret Thatcher

Nulla cambierà

L’importante è che sia chiara una cosa: nulla cambierà e quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi è solo una delle tante pagliacciate che periodicamente contraddistinguono il calcio italiano. Domenica sera si è assistito all’ennesimo scempio razzista in uno stadio italiano: l’arbitro Mazzoleni non ha pensato di fermare la partita (il primo stop spetta al direttore di gara), il questore ha detto che è stato meglio non sospendere, la copertura giornalistica televisiva di Sky Sport durante la cronaca è stata deficitaria: quasi mai il focus è stato sugli ululati razzisti; chi era a casa, non ha potuto rendersi conto del clima che si respirava a San Siro. In ossequio al principio base che è quello di minimizzare sempre e comunque oppure, per dirla alla Caressa, non fare da cassa di risonanza a certi atteggiamenti. Questa è la premessa per chiarire qual è la sensibilità italiana alla piaga del razzismo.

Un patto di non belligeranza

Come ha giustamente scritto Fabio Avallone: gli stadi italiani sono ormai una zona franca e lo Stato non ha la benché minima intenzione di intervenire. La differenza non è tra juventini, milanisti, napoletani, interisti. La differenza è tra chi va allo stadio disarmato e per assistere a una partita di calcio e chi invece ci ha costruito un’ideologia che comprende la violenza e vive la partita come un rito non si sa bene di cosa. L’ideologia è trasversale, accomuna tutti gli appartenenti a questi gruppi. Al di fuori delle battaglie, sono persino solidali tra di loro. Sono i padroni incontrastati delle curve. Decidono loro dove ci si può sedere, quali bandiere portare, quali cori cantare. Lo Stato ha evidentemente ritenuto che fosse più comodo così: una sorta di patto di non belligeranza, addio scontri sanguinosi con loro in cambio di una modica libertà d’azione negli impianti. Ogni tanto, però, la situazione scappa di mano. Come per la finale di Coppa Italia che a Roma costò la vita a Ciro Esposito, oppure l’altra sera a Milano.

Ogni tanto nei discorsi fa capolino Margaret Thatcher il primo ministro inglese che all’indomani dell’Heysel cominciò ad approvare una serie di provvedimenti repressivi. Arrivò poi la strage di Hillsborough: tragedia non imputabile agli hooligans, ma alla disorganizzazione e all’insipienza delle forze dell’ordine che stiparono i tifosi del Liverpool su una gradinata troppo piccola e che non resse. Novantasei furono i morti. Uno shock per il calcio, non solo inglese, che non fermò la politica thatcheriana. Anzi. Un modello che ovviamente ha diviso: alcuni lo hanno apprezzato, altri no. Possiamo dire che oggi la violenza è stata completamente sradicata dagli stadi inglesi che secondo alcuni sono diventati luoghi più simili ai teatri. Per picchiarsi, i tifosi si danno appuntamento altrove.

Il Salvini quotidiano

Si può apprezzare o meno la politica Thatcher in merito al calcio, possiamo però paragonarla alle prime reazioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Che conferma qual è la percezione che il governo e lo Stato italiano hanno del fenomeno violenza negli stadi. Con Salvini, ma anche prima di Salvini. In venti e passa anni, nulla è cambiato. E ieri, con le sue dichiarazioni a Tiki Taka, il leader leghista si è inserito perfettamente nel solco dei suoi predecessori. Col vantaggio di essere anche conosciuto nell’ambiente, come evidenzia la sua foto con il capo ultras del Milan Luca Lucci con precedenti per droga.

Salvini ha innanzitutto promesso che incontrerà i responsabili delle tifoserie organizzate. E già restiamo sconcertati. Li riconosce, conferisce loro uno status politico. Sarà interessante capire se saranno perquisiti al loro ingresso al Viminale, oppure no. Poi ha proseguito con la tiritera sulle società di calcio che devono investire nei sistemi di controllo. Una pagliacciata che va avanti da anni. Basta ricordare le parole di Andrea Agnelli in commissione Antimafia: spiegò come la Juventus – il più importante club italiano – si sentì sotto ricatto da parte degli ultras e avallò il bagarinaggio per non avere problemi negli stadi. E aggiunse che lo Stato li lasciò soli. Gli si può credere o meno, ma questa fu la sua versione.

Non è razzismo

Capitolo razzismo. Degli ululati, Salvini ha detto che “negli stadi cantano anche Milano in fiamme: è razzismo questo? Anche Bonucci, che è bianco, è stato ricoperto di buu a San Siro. Il razzismo non c’entra niente, è sano sfottò tra le tifoserie». Una linea, quella del sano sfottò, che spesso è stata sposata anche da commentatori nazionali di calcio. Una perfetta linea all’italiana.  Leggerissima, impercettibile, la differenza con la Gran Bretagna dove i tifosi che si rendono protagonisti di episodi di razzismo, vengono individuati ed espulsi a vita dagli stadi.

A proposito di Koulibaly, Salvini ha saputo dire soltanto che lo vorrebbe al Milan. E ha aggiunto che Mazzoleni ha fatto benissimo a non fermare la partita: «Meno male, altrimenti pensate cosa sarebbe successo». Una difesa a spada tratta dell’esistente. Il morto di Milano, evidentemente, per lui è un incidente di percorso. Domani si gioca, tutto sarà dimenticato. Del modello Thatcher e delle omertà diffuse nel sistema calcio – dai tesserati ai media – si tornerà a parlare al prossimo casus belli.

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