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Anche Sarri sbaglia, ma stiamogli vicino. La vittoria serve più a Napoli che a lui

È più insicuro che paraculo. Il suo collettivismo – cui manca Maradona – è più distante da Napoli rispetto alla monarchia di De Laurentiis

Anche Sarri sbaglia, ma stiamogli vicino. La vittoria serve più a Napoli che a lui
Sarri (Ciambelli)

Il calcio è un cosa seria

Secondo il mistico Gurdjieff, i processi di cambiamento hanno un percorso per nulla lineare, assai simile alla scala musicale dei 7  toni (DO, RE, MI, FA, SOL, LA, SI), in cui tra il MI ed il FA (all’inizio della scala) ed il SI ed il DO (alla fina della scala), non esistono semitoni, ma vi sono dei vuoti, degli intervalli, che determinano dei rallentamenti.

Questa legge spiega quindi che non c’è niente, in natura, che si sviluppi in linea retta.

Vale per tutto, compreso i progetti umani: essi perdono “naturalmente” il loro “slancio” iniziale e ci fanno entrare in una fase di stanca. Da cui non si esce senza uno “shock addizionale”.

Marcelo Bielsa sta al calcio come Ezra Pound alla poesia, sebbene i due abbiano esercitato da agit prop su sponde opposte. Il Loco, come è soprannominato l’allenatore di Rosario, città che diede i natali al Che, a Leo Messi, a Icardi, a Lucio Fontana e  Roberto Fontanarrosa, una volta ha catalogato le diverse sfumature del calcio d’Argentina a seconda delle zone in cui questo sport viene da sempre praticato, evidenziando ad esempio la maggior aggressività dei provinciali, quelli lontani dai grandi centri, ecc…

Il calcio è una cosa seria, addirittura sottovalutata secondo chi scrive, e non c’è bisogno di scomodare Pasolini per capire che è l’ultima religione d’occidente e forse l’ultima forma davvero universale di spiritualità (ma fisica e  carnale, assai carnale, senza rischi di dualità gnostiche) sia pure esprimendosi in esso, legittimamente, distinti modi di intenderlo e metterlo in pratica, il che mi fa venire in mente quanto James Hillman diceva del cibo:

“Per pensare accuratamente abbiamo bisogno delle distinzioni, e il modello greco del paganesimo è ricco di distinzioni. E come il sapore dell’acqua: diverso in ogni villaggio. E un principio molto importante, specialmente nel Mediterraneo. In ciascun villaggio della Spagna il prosciutto è diverso e si può distinguere il prosciutto di un villaggio da quello di un altro. Lo sa? Il sapore delle olive di un paese della Sicilia è diverso da quello delle olive di qualsiasi altro. E questo culto della diversità è parte della nostra eredità occidentale, ed è anche una componente della nostra natura animale.”

Mediterraneo.

Spirituale e animale.

Cibo per gli occhi e per l’anima.

“Il catenaccio mi sta antipatico”

Alla presentazione di un bel libro sul calcio (Il catenaccio mi sta antipatico, Marco Ciriello, Magic Press, 2017), alla presenza degli amici Mauro Erro, Paolo De Cristofaro e il mister Augusto Di Iorio, un giovane ha chiesto all’autore, un sostenitore accanito del bel gioco, da Bielsa a Guardiola fino a giungere a Pochettino e Sarri, se vi sia un antidoto allo scivolamento del calcio propositivo nell’estetismo puro, nello schematismo perfino, quindi al rischio di un pensiero unico, dell’assurgere del guardiolismo a stucchevole fighettitudine, denunciato se non erro anche su queste pagine.

Lo scrittore ha dato tra il serio e il faceto una risposta sorprendente:

“Non c’è nessun antidoto all’accademia, alla tendenza a diventare scolastica di uno sport che nasce sugli sterrati come il calcio se non il ritornare agli sterrati, togliere i bambini dai campetti delle scuole calcio e riportarli a giocare per strada, dove possano conoscere le sponde dei marciapiedi, scappare al prete che allunga le mani o al commerciante a cui si è rotta la vetrina. Se penso che ci sono quartieri di città sudamericane dove a 11 anni i ragazzi vanno in giro armati e vedo, invece, qui da noi uscire dai campetti delle scuole calcio bambini che per la stanchezza si fanno portare in braccio dai genitori, mi viene una tristezza…”

Difenderò Sarri fino alla fine

Io difenderò Sarri fino alla fine, giungano o meno gli sperati successi. Perché, avendo ormai un’età, mi ricordo il Napoli di Maradona, banda paesana che Diego rese orchestra zappiana, e qualcuno dei precedenti nonché tutti i successivi ma nessuno, nemmeno quello degli scudetti, mi ha esaltato come quello di oggi. Non abbiamo mai visto un gioco simile qui a Napoli, è un dato inoppugnabile. Lo dico, eh, mentre scrivo sotto un poster che ho fatto mettere nel mio ufficio dove è raffigurato un muro con su scritto “Solo Diego salva”…

Tra l’altro, ribaltando un po’ anche la favola del consenso di cui godrebbe – e lo gode, ma in termini particolari – il tecnico toscano oggi a Napoli, si deve evidenziare che se da un lato quanto ci mostra sul campo eccita la nostra fantasia, è bellezza che uccide o comunque ferisce (oggi di meno) gli occhi di chi ama il gioco bambino, pirotecnico – e non è necessario spiegare come nella Napoli dei fuochi pirotecnici trovino terreno fertile il circense, la “malattia” delle giocate a memoria – dall’altro lato l’elaborazione che c’è dietro quelle azioni  è in netta rottura con l’essere nostro più intimo, anarcoide e individualista perfino.

La monarchia di De Laurentiis è più affine a Napoli del calvinismo di Sarri

Sempre giocando a ribaltare, si potrebbe finanche affermare che il modello di monarchia personalistica di ADL si confà al napoletano più delle concezioni di gioco di Sarri.

Che sono frutto di un pensiero collettivista, di lavoro (etica calvinista) e organizzazione, interiorizzazione di movimenti, automatismi, cose sui cui, per fortuna, in un mix del tutto naturale, si innesta l’anarchismo temperato di un Insigne, il cui taglio per Calle è poesia mediterranea, non solo tecnica, mentre domani lo spettacolo avrà bisogno dell’estro di Ounas per fornire una dose di imprevedibilità e scampare al pericolo dell’accademia, del lezioso.

Il vero neo del collettivisimo di Sarri è che non ha Maradona

Il vero neo del collettivismo di Sarri è invece nell’assenza di un Maradona, un monarca assoluto, un  capo, che allo stato non è Sarri e non è individuabile ancora in alcun giocatore: Napoli ha bisogno di questo, da sempre, inutile girarci attorno, San Gennaro, Diego, ‘o Rre, è il personalismo mediterraneo all’ennesima potenza, il bisogno di un tu per tu anche coi santi (Troisi e Arena nella nota gag), il motivo per cui il modello dell’odiato ADL (pure lui, però, privo del carisma giusto e distante anche da un Lauro o da un Berlusconi) regga già da alcuni anni, tra mille critiche e lo stigma – legittimante – delle curve, mentre gli allenatori passano le consegne dopo qualche anno.

Dall’aziendalismo di Benitez alla lotta di classe di Sarri

Benitez non aveva le physique du role ma neanche Sarri, a ben vedere. E bisogna sempre lavorare sul mistero dell’esistenza prima di pensare a modellare il proprio calcio, cosa che Rafa faceva da teologo ferrato e illuminato alla Ratzinger, coi limti della pura teologia, Sarri soprassiede gettandosi nella lotta, la risposta sul campo, alla Wojtila ma con piglio marxiano. In ogni caso, dall’aziendalismo del primo si è transitati alla lotta di classe (accennata) del secondo. In realtà anche la seconda ci starebbe bene, nel presepe, se condotta in un alveo, un gioco delle parti – non ci si scandalizzi, non sarebbe una novità nemmeno per la politica.

Più insicuro che paraculo

Ciò che lascia perplessi del toscano è semmai qualche uscita che denota insicurezza più che paraculaggine, come invece sostiene qualcuno, lo si vede puntualmente con le sviolinate per Higuain, l’ultima assai irritante, anche perché dopo la cocente sconfitta con la Juve al San Paolo e, in più, trascorsi ormai quasi due anni dal “tradimento”, con una città che ha in fondo – al netto di fischi che ci saranno sempre – ampiamente elaborato il fatto. Lo dico: mortificanti per la squadra, in primis per la sua nuova punta (e inventata punta dallo stesso Sarri).

Il Loco è stato cacciato dalla sua ultima squadra, il Lille, per un viaggio non autorizzato in Cile per far visita all’amico malato di cancro. È una vicenda che spiega tante cose ed è essenziale per capire perché l’uomo goda di un amore incondizionato che non avrà mai, per esempio, un ottimo, a suo modo geniale tecnico come Max Allegri, maestro del lavoro scomodo, o un vincitore nato come Zizou: tra trent’anni ci si ricorderà di Bielsa, che non ha vinto niente, non del c.t. del Real Madrid, statene certi, e abbiamo voglia a prendere per il culo uno Zeman, dimenticando che lui è quello della fucina che ci ha fornito talenti come Insigne, Verratti e Florenzi. Come è infantile insistere sulla sconfitta di un Ventura quando ha fatto altrettanto male al calcio italico il modo di spiegarlo di un Pardo, coi suoi numeri, il nerdismo.

La vittoria serve più a Napoli che a Sarri

Che Sarri vinca qualcosa o meno, per certi versi poco conta, il suo Napoli resterà nella nostra memoria a lungo.

La vittoria serve piuttosto alla città, e non è proprio poco, come fatto culturale, si spera come spartiacque, espressione definitiva dell’idea di molti che attraverso il combinato disposto di fatica e bellezza, un progetto imprenditoriale solido ed estro, organizzazione e anarchia, si possa giungere a un traguardo anche qui, anzi proprio qui.

Naturalmente, non è retorica ricordarlo, c’è bisogno di tutti perché ci si arrivi e, a ben vedere, anche la sinistra perde quando dimentica, di quelle tre, tutte essenziali, paroline del motto rivoluzionario, la più essenziale, valorizzando solo libertà e eguaglianza. Da noi, il terzo termine è appunto: Napoli. La città.

La maledizione delle élite

E veniamo ai veri problemi. Ho da un po’ l’impressione che la distanza tra élite e popolo qui a Napoli non sarà colmata fino a quando le élite di Napoli malediranno interiormente l’essere state costrette a restare a Napoli e guarderanno con rammarico, rimpianto, alla vita culturale di altri centri del paese o del mondo dove hanno avuto la fortuna di soggiornare per mezz’ora, un week end o un anno.

Quella maledizione, non lo sanno oppure si, finisce per estendersi al popolo, al suo modo di vivere e pensare, considerato meschino, ristretto, puerile, per alcuni intimamente camorristico. In realtà, se il popolo, in alcuni suoi aspetti, è così meschino è perché ha assunto, suo malgrado, alcuni dei vizi delle élite, delle classi da cui esse provengono (in passato i proprietari fondiari, oggi la piccola e media borghesia più o meno istruita), senza però la facciata di acculturamento, la spocchia da poeta laureato.

Tutto questo non so se c’entri col fatto che la pizza patrimonio Unesco – fatto in sé positivo, ci mancherebbe – diventi in città l’ultimo rifugio degli sfigati che si aggrappano ai riconoscimenti degli altri, ai bidet e a tutti gli altri “primati storici” (purtroppo ideologia quasi dominante in questi ultimi tempi, opposta ma speculare a quella altrettanto superficiale e insopportabile imperniata sulla “narrazione del male”, per cui la città sarebbe a vocazione gomorrica).

E non so nemmeno se c’entri che alla Napoli dei pizzaioli gourmet, del “pariare”, del “raga, ci vediamo per l’apericena?”, del vociare del pubblico dei distinti, sia preferibile sempre l’intemperanza mista a fedeltà della “mazzamma” curvaiola come la puzza di olio fritto dell’ultima scalcagnata pizzeria sotto casa.

Il pubblico di Rotterdam

Ho l’impressione, invece, che c’entri che l’altra sera ci siamo un po’ tutti trovati ad invidiare il pubblico di Rotterdam, cattivo e compatto, che fischiava Albiol e sosteneva una squadra che vale forse la metà della nostra ma ci ha buttato fuori dalla CL.

“Non reclamate nulla, ingoiate il veleno, accettate l’ingiustizia, che alla fine tutto si riequilibra” dice il Loco ai suoi uomini. La filosofia serve al calcio e il gioco, oggi, è così centrale nei cuori e nei discorsi della gente, nonostante la corruzione, il mercato, il politicamente corretto, perché espulso da tempo da tutte le forme culturali, invero sempre più grigie e tristi, cominciando dalla politica, ma anche il gioco ha delle regole e reclama una sua serietà, un rigore, una disciplina.

A Napoli, in assenza di un leader carismatico in grado di mettere tutti d’accordo, serve una sforzo di volontà per farcela, serve l’unione, più che mai, lo “spalla a spalla” che predicò Rafa Benitez.

Lo invitiamo a cena, non per una pizza ma per un soffritto

Maurizio Sarri in più di un’occasione ha dimostrato di preferirgli il conflitto sociale o ha semplicemente sbagliato nella comunicazione (come quando ha espresso assai male un concetto giusto e a suo modo rafaelita, quello per cui la EL non è affatto da disprezzare per una città che non ha tanti trofei nella sua bacheca). Non è un amministratore delegato e non lo sarà mai, e anche per questo ci piace. Non è un caporale ma un uomo. Forse sta a noi non enfatizzare, nel delicatissimo momento di naturale perdita di uno slancio, essere più coesi, vincere le ataviche spinte disgreganti, questa innata e anche benefica anarchia, per una volta, ma recuperando identità (non identitarismo). E allora ben venga la polemica – nessuno è al di sopra delle critiche, non lo era Rafa Benitez, non lo è Maurizio Sarri – purché non si presti il fianco all’inclinazione al gioco al massacro. Dallo “spalla a spalla” al colpire (in realtà colpirsi) alle spalle, sia pure inconsapevolmente e sentendosi investiti di una missione di verità, è un attimo.

P.S. Insomma, sì, mi accorgo di averla fatta lunga. Era tutto, in fondo, per dire che bisogna aiutare Maurizio nostro. Magari c’è anche un problema di dieta e pure di chi ti accompagna al ristorante. Ho letto che Maurizio ora ha deciso di andare a cena con Iannicelli, dopo il botta e risposta in conferenza stampa. Fa bene. È un buon professionista. Ma, Maurizio, ascoltaci, fa freddino, vieni una volta a mangiare il soffritto con noi. È invitato anche il direttore di questa, ancora, indispensabile testata. Il cuore di chi mangia il soffritto, come dice l’amico Michele Miracolo, non conosce sconfitta.

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