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Da Dani Alves all’Unesco per la pizza, Napoli ha sempre bisogno del riconoscimento altrui

È come sbandierare il tasso di supremazia territoriale quando si perde uno a zero. È un buon dato, ma culturalmente abbastanza impotente.

Da Dani Alves all’Unesco per la pizza, Napoli ha sempre bisogno del riconoscimento altrui

Il Gran Consiglio dei Dieci Assenti

C’è di che rallegrarsi: un comitato riunito su di un’isola coreana ha usato una “u” riabilitante per nobilitarne finalmente il mestiere e renderli “pizzaiuoli”. La città è in festa, ha lo stesso petto gonfio dei giorni felici in cui fu Dani Alves a concederci la patente di civilizzati. Il mondo scopre la pizza napoletana e la immortala come bene “immateriale”, un aggettivo dalla eco fantozziana che riecheggia il Gran Consiglio dei Dieci Assenti – accetterà la mozzarella di sentirsi chiamare immateriale?

Certo la notizia non è malvagia, intendiamoci. Fa solo sorridere che a sentire il profondo orgoglio nel vedersi appuntare una medaglia da un gigantesco ed ipertrofico organismo multinazionale siano i più localisti di sempre – gli identitaristi, i sudisti, quelli delle radici del quartiere, gli anti tutto (Euro, Europa, Italia, Italia unita). Fa sorridere il video del sindaco che raccoglie idealmente in un abbraccio i pizzaiuoli di tutto il mondo in un chromakey che ricorda le prime clip di Caccamo. Poco importa che una tra le pizze più mangiate al mondo sia la Hawaii – quella guarnita con le squisite fette di ananas. Il riconoscimento dell’Unesco sancisce la potenza di Napoli, è scritto così sul pezzo di carta e così va letto.

Inventiamo mondi paralleli

Siamo degli eterni insicuri, questo ci suggerirebbe un po’ di onestà. Fingiamo di andarcene tronfi per il mondo ma desideriamo sempre un lasciapassare di non-inadeguatezza. In pubblico mostriamo di scrollarcela di dosso e di non soffrirla quella puzza della strada, ma la sentiamo come un tanfo. Ci dà fastidio se ci danno dell’ex bancario, perché lo siamo stati e diciamo che ne siamo fieri ma in fondo quel tempo ci pesa. Allora inventiamo dei mondi paralleli, nei quali siamo diversi da come ci vediamo, in cui possiamo diventare quanto da sempre desideriamo – cioè altro. In direzione ostinata e contraria non riusciamo ad avventurarci sui nostri piedi. C’è bisogno persino di una nobile istituzione internazionale per convincerci di quanto dovrebbe essere nella logica stessa delle cose. Che un potere già lo siamo, uno spazio di manovra ci è già concesso, se solo camminassimo, se solo non ci facesse comodo dire il contrario.

Cosa festeggiamo?

Il riconoscimento dell’Unesco per i pizzaiuoli è come il tasso di supremazia territoriale sventagliato ai quattro venti quando si perde uno a zero in casa uno scontro diretto. È un buon dato, ma culturalmente abbastanza impotente. Chi riesce a cadere tra le braccia di un coefficiente piuttosto che di una vittoria? E a cosa serve salutare un bene immateriale protetto se poi tutti mangiano quelli materiali e non protetti da Pizza Hut sotto casa? Insomma, se da questa pizza non discende una vasta e sonante ricchezza, cosa festeggiamo? Errico Malatesta, scrittore italiano di Santa Maria Capua Vetere, anarchico – come il nostro Ounas, che pare non goda di troppa stima ultimamente – scrisse: “Noi vogliamo il massimo possibile sviluppo morale e materiale per tutti; noi vogliamo per tutti pane, libertà, amore, scienza”. Niente pizza. Lui nei dati di possesso palla non ci credeva troppo. E nemmeno nei gran comitati di esperti.

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