Calciomercato: i club di Serie A, startup Milan esclusa, vendono prima di comprare e non chiudono in rosso il bilancio. Come si è arrivati a questo punto.
Prendete un quotidiano sportivo. Andate alla pagina riassuntiva del calciomercato. Non soffermatevi tanto sulle tabelle, quelle che tra i movimenti in entrata registrano anche i fine prestito e le acquisizioni di oscuri talenti dalla seconda serie magiara. Guardate le grafiche, le rappresentazioni del nuovo 11 in campo, gli schemini stilizzati dove in evidenza compaiono i nuovi ingaggi di maggior peso. Noterete che a eccezioni di quelle squadre che hanno cambiato molto (come il Milan, o il Benevento) e di quelle che hanno cambiato pochissimo (l’Inter, lo stesso Napoli) la maggior parte delle società si fermano a 2 o massimo 3 innesti di peso.
È vero, al 31 agosto manca un mese e ancora tanto può cambiare. Ma la paginata sul calciomercato, oggi, è la miglior fotografia possibile dello stato di salute del calcio italiano. Uno strumento cognitivo per il tifoso, azzurro in primis, che magari si sente annoiato o un po’ depresso da un’estate che non regala emozioni. Arriviamoci per gradi.
L’effetto Padre, l’effetto Ogbonna
Perché diavolo i club di serie A non ci danno dentro? Eppure c’è chi incassa bei quattrini da vendite, diritti TV, premi Uefa. La prima risposta è: inflazione. È sotto gli occhi di tutti che i valori del calciomercato europeo sono in crescita progressiva e costante. Riconosco subito un tributo a un caro amico e collega (ciao Enrico!) che per primo nel 2011 parlò di “bolla Pastore”: quando il PSG si rivela disposto a pagare 43 milioni per un giocatore forte, ma da vedersi quanto campione, come l’argentino Pastore del Palermo, si legittima l’idea che per un talento qualsiasi valutazione, per quanto alta, sarà credibile. Dopo Pastore, però, a lungo quello calcistico di alto livello è stato un mercato duale: per certi giocatori che andavano via a prezzi folli, per altri si staccavano ancora assegni livellati verso il basso.
A segnare l’ulteriore salto inflazionistico c’è stato quello che io definirei “l’effetto Ogbonna”. Gli analisti ci avevano messo in guardia: ora che le squadre di Premier, incassando diritti TV sempre più alti, avranno portafogli ancora più munifici, le conseguenze saranno più complesse di quanto generalmente inteso. Non solo il calcio inglese migliorerà il proprio livello qualitativo, ma spendendo di più degli altri innalzerà l’indice dei prezzi dei giocatori per tutti. In tutta Europa. Il West Ham che, appena arrivato 12esimo in campionato, nell’estate del 2015 paga 11 milioni per un Ogbonna reduce da due stagioni del tutto deludenti alla Juve, è la misura del fenomeno.
Gli effetti dell’inflazione sugli equilibri
Insomma, è una trasformazione che abbiamo vissuto tutto sotto i nostri occhi. Il 23enne Bernardeschi, sulla scorta di 70 presenze in Serie A, è stato comprato dalla Juve a 400 milioni. Per Chiesa jr., che di caps in massima serie ne ha 27, si parla di oltre 20 milioni. Nel 2013, con un calciomercato ancora duale, il Napoli, venduto Cavani, con quei 60 milioni si è rifatto mezza squadra. Prendendo, tra gli altri, Higuain a 39 (sappiamo tre anni dopo a quanto sarà ceduto). Oggi, se il Genoa riuscisse a cedere Simeone ai 40 milioni che chiede, con l’incasso tutt’al più si compra due Pavoletti (con tutto il rispetto dovuto al Pavoloso). È una dinamica rialzista che aumenta i flussi di cassa delle squadre di Serie A, ma che non permette più a chi vende di spostare gli equilibri. L’obiettivo per molti rimane la scoperta del talento magiaro.
Alzare il fatturato
Qui passiamo al secondo punto. Un’altra evidenza è che il movimento italiano oggi, archiviati definitivamente i tempi belli di una volta e reagito all’inerzia disfattista dei primi anni ’10, si è data una sua policy: il calcio è un’attività che dal punto di vista economico si deve sostenere da sola. Lasciamo per un attimo perdere il nuovo Milan cinese, che è in fase di startup e che andrà giudicato quando andrà a velocità da crociera. I club italiani evitano di indebitarsi, di conseguenza le proprietà, italiane o estere, di dover ricapitalizzare. Tutti i costi di gestione e tutti gli investimenti si fanno con i capitali raccolti dalle attività sportive e da quelle collaterali. Così fa il Napoli, così fa la Lazio, ma così fa anche la Juve, che da anni ha smesso di chiudere il bilancio in rosso e che compra dopo aver venduto. L’unico modo per alzare l’asticella su ingaggi e valore degli acquisti, quindi, è alzare il fatturato.
Il tifoso sanguigno, quello che rimpiange il calcio dei presidenti spendaccioni e che guarda con invidia agli Abramovich e ai Mansour degli altri, ha pronte due risposte: “Che i proprietari investano di tasca propria, o che per lo meno facciano gli imprenditori e si diano da fare per innalzare in maniera strutturale ‘sto benedetto fatturato”. Ecco, due invettive semplici che richiedono risposte complesse. Ci si potrebbe scrivere una tesi di laurea, e ci hanno già scritto libri. Per necessità di sintesi andiamo al sodo. Le parole chiave sono due: attrattività (della lega) e investimenti (che vale la pena fare).
Stadi
Immedesimatevi in un imprenditore. Sappiamo in generale che l’Italia, come territorio e sistema Paese, non è quello dove più facilmente si fa impresa. Sappiamo, poi, in particolare che il calcio italiano, pasciuto per decenni tra le braccia di miliardari, ha agganciato il treno della modernità (cioè del calcio efficiente e finanziarizzato del Nord Europa) solo quando gli imperi di quei miliardari hanno cominciato a collassare. Ma sappiamo anche che il calcio italiano ancora fatica a fare suoi certi meccanismi, nelle istituzioni come nell’opinione pubblica. Ecco, siete certi, allora, che da imprenditori, per quanto innamorati di una squadra, riversereste capitali nel pallone? Il presupposto è che anche i riccastri arabi, come spiega Calcio e Finanza a proposito dell’affare Psg-Neymar, pur in spese faraoniche, perseguono obiettivi sostenibili e razionali. Perché chi opera nel calcio italiano dovrebbe fare eccezione?
Parliamo di fatturati. Nelle uscite degli ultimi giorni di Pallotta, la cosa più interessante non l’ha detta sul Milan, ma sul suo futuro: “Senza stadio, vendo la Roma”. Chi segue l’attualità conosce le convulsioni amministrative del progetto del club giallorosso. Non hanno avuto sorti migliori quelli per gli stadi di Lazio e Fiorentina. Il calcio Napoli e Palazzo San Giacomo dell’argomento non parlano neanche più, probabilmente. Tutte le nuove gestioni che si affacciano nel calcio italiano inseriscono lo stadio tra le priorità. Eppure in Italia, Mapei a parte, negli ultimi due lustri di stadi se ne sono costruiti due, mentre di cantieri ne hanno aperto giusto un’altra manciata. Non ci sono garanzie, insomma, che la volontà di uno stadio nuovo si traduca in tempi certi nell’edificazione di un’infrastruttura. Quindi per un club uno dei primi passi da compiere per perseguire l’innalzamento del fatturato è anche il più difficile da realizzare, per motivi che spaziano dal politico al burocratico.
Non solo stadi
Lo stadio è solo un esempio, ma molto significativo. Perché (anche) sulle lungaggini per la cittadella viola si è consumata la fine della presidenza dei fratelli Della Valle a Firenze. Nell’ambiente calcistico si tende a sottovalutare il peso specifico della famiglia Tod’s nell’economia italiana. Ci si dimentica che il gruppo della calzatura e della moda dei Della Valle nel 2016 ha fatturato oltre un miliardo di vendite, mentre il presidente viola Andrea è nella classifica Forbes degli uomini più ricchi al mondo con un patrimonio personale di 1,1 miliardi di dollari (il fratello Diego ne ha 1,6). Parliamo di persone che hanno le competenze per fare impresa e i soldi per far saltare il banco. E che ci hanno anche provato a fare i sugar daddy, portando a Firenze giocatori come Gilardino e Mutu, Mario Gomez e Pepito Rossi. Ma oggi se ne vanno.
Qui non vogliamo suggerire una valutazione del loro operato in questi anni a Firenze. Ma sottolineiamo, dal semplice punto di vista della credibilità imprenditoriale, che mentre l’Italia calamita i Paul Baccaglini (vedi Palermo) e le lady Essien (vedi Como), i Della Valle disinvestono. Siamo nel campo dell’attrattività. L’estate scorsa il “Warren Buffett Cinese”, come la stampa internazionale ha soprannominato il tycoon Guo Guangchang (6 miliardi di dollari di patrimonio personale, ancora secondo Forbes), ha comprato il Walverhampton Wanderers. Meglio un club minore e periferico inglese che un club di prima serie italiana.
Abbiamo fatto il giro dell’oca. Il calciomercato pigro è la cartina di tornasole di un movimento calcistico che deve centellinare le pur crescenti risorse. Perché alternative, al momento, non ne ha.