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Romanzo napolista / L’arrivo a Napoli di Reginaldo La Cruz

Nona puntata del romanzo “Hard Boilin’ Football” di Pasquale Guadagni.

Romanzo napolista / L’arrivo a Napoli di Reginaldo La Cruz

Mentre il transatlantico entrava con fragore nel porto di Napoli, dal ponte Reginaldo La Cruz ammirava il Vesuvio con occhi sonnolenti. Albeggiava appena e il messicano, avvolto nel suo lurido poncho, era già pronto con il suo misero bagaglio e ragionava fumosamente su quel che avrebbe fatto. In Italia i rossi li hanno già fatti fuori, – pensava La Cruz – per cui non ci sarà un gran bisogno di gente che spara. Sul ponte comparvero Floyd e il giovane Ferruccio. Reginaldo! – fece l’inglese tirando fuori dalla tasca un biglietto – Qui ho scritto il domicilio del mio albergo a Napoli, vieni a trovarmi prima del giorno della partita! Grazie Floyd, mi farò vedere presto – gli rispose La Cruz. Camerata! – esclamò Ferruccio in italiano – Lasciamo nelle profondità dell’oceano i dissapori che ci hanno separati e, visto che stiamo per mettere piede sul suolo della mia patria italiana, datemi la mano a sancire una nuova amicizia fascista! Reginaldo non capì nulla e rimase immobile e ingrugnito di fronte all’italiano, ma poi Floyd gli spiegò le intenzioni dell’avanguardista e i due si strinsero finalmente la mano destra, mentre con la sinistra Ferruccio teneva il manico del pugnale e La Cruz il calcio della pistola. Se i fascisti italiani hanno tutti quel temperino – pensò Reginaldo – potrei fare affari importando artiglieria seria, ma forse qui, senza i rossi, a nessuno gliene frega niente dell’artiglieria. E’ possibile che i rossi m’intralcino gli affari anche dove non ci sono? Intanto la folla sul ponte aumentava e Reginaldo, che era rimasto a guardare il mare, voltandosi vide Ferruccio qualche metro più in là e urlò verso di lui: “Ehi, fascista! A parte quei coltelli, voi fascisti le usate le armi da fuoco?” Dipende dal bersaglio, camerata! – rispose Ferruccio – Se il bersaglio è una starna o una volpe, allora largo alle armi da fuoco, ma se il bersaglio è un rosso, personalmente credo che nulla possa sopire la fame di giustizia meglio di un pugnale! Uno che di questi tempi per un omicidio preferisce il pugnale all’artiglieria è uno stronzo romantico che non ha mai ucciso nessuno – pensò Reginaldo, fregandosi i palmi delle mani sulle fondine che nascondeva sotto il poncho.

Appena sceso a terra, La Cruz fu portato dalla polizia portuale in un capannone dove venivano convogliati gli stranieri per essere registrati. Gli consegnarono un modulo per fornire le sue generalità e alla voce ‘professione’ scrisse ‘sceriffo fascista’. La polizia, dopo averlo perquisito, gli confiscò subito le pistole e iniziò a interrogarlo, con l’aiuto di un interprete, facendo all’immigrante domande serrate su come avesse potuto conciliare la professione di sceriffo e il suo credo fascista nella corrotta democrazia plutocratica americana. In Texas, dove lavoravo io, – disse Reginaldo ad un certo punto dell’interrogatorio – in fondo un buon sceriffo dev’essere anche un buon fascista, deve difendere i suoi cittadini dalla feccia che viene da fuori, specialmente dal Messico, che è pieno di canaglie rosse. Che cosa vi ha spinto in Italia? – domandò un poliziotto. I rossi sono stati sempre i miei nemici – fece Reginaldo – e in America mi hanno detto che voi italiani siete all’avanguardia contro di loro. Questa è una gran verità! – esclamò il poliziotto scattando in piedi, visibilmente inorgoglito – L’Italia è un esempio per il mondo intero perché fascistizzandosi si è mondata di ogni lerciume. Ben detto, capo! – sbraitò Reginaldo – Potrei riavere le mie pistole? La Croce, voi mi sembrate una persona perbene, – ribatté lo sbirro – e se dipendesse da me ve le restituirei, ma non sono autorizzato a farlo, perché la qualifica di sceriffo democratico americano, al di là delle vostre qualità personali, fa di voi una persona che non può girare armata nell’Italia fascista. Dunque le armi sono requisite, ma ci sarebbe un modo per riaverle presto. Me lo dica – chiese La Cruz, ansioso. Camerata La Croce! Stracciate qui davanti a me il vostro passaporto democratico americano ed io vi farò avere documenti nuovi di zecca, italiani e fascisti! Così riavrò la mia artiglieria? – chiese Reginaldo. Non subito, – fece il poliziotto – perché prima dovrete superare un periodo di sorveglianza speciale per dimostrarci di essere una cellula sana nella nostra perfetta organizzazione fascista. Va bene capo! – rispose Reginaldo – tenetevelo pure il mio pezzo di carta democratico. − No, camerata! Dovete stracciarlo con le vostre mani per dimostrare la virile intenzione di iniziare una vita fascista! − Ok, capo! − Niente ok, camerata! Un fascista non dice ok, che è roba da pederasti, un fascista esclama ‘agli ordini!’ − Agli ordini, capo! Reginaldo lacerò con indifferenza i suoi documenti, senza immaginare che di lì a poco sarebbe diventato Egidio La Croce. Nel pomeriggio, diventato fascista per direttissima, Reginaldo fu lasciato andare con documenti provvisori, seguito a vista da uno sbirro. Ripetendosi ad alta voce, quasi divertito, i suoi nuovi nome e cognome fascisti, andò in un ufficio di cambio. Lo sbirro che gli era alle calcagna entrò dietro di lui e allibì quando La Cruz, rivolto all’impiegato, urlò in messicano: “Camerata, mi chiamo Egidio La Croce e voglio cambiare i miei sporchi dollari democratici con autarchica valuta fascista!” Reginaldo, riempite le fondine delle pistole con due grossi rotoli di lire italiane, iniziò a vagare per la città e, fermandosi a guardare le vetrine dei negozi di abbigliamento, decise che avrebbe fatto bene a indossare qualcosa di meno appariscente del suo poncho, nel quale cominciava a sentirsi osservato.

Sotto gli occhi compiaciuti dello sbirro, uscì da un negozio di uniformi militari inguainato in un modello della divisa nera dei sansepolcristi, che il commerciante gli aveva consigliato dicendo che era un’emissione speciale per celebrare il decennale della fondazione dei fasci di combattimento. Più tardi, da un barbiere, mentre lo sbirro, seduto in disparte, leggeva Il Popolo d’Italia, Reginaldo, con il cinturone e le fondine strette intorno all’uniforme, sedendosi alla poltrona fece il saluto romano allo specchio ed esclamò in messicano: “Barbiere, un taglio fascista a barba e capelli!” Lo sbirro uscì subito dal negozio e andò al posto di polizia dietro l’angolo per depositare un’informativa in cui diceva d’aver ricevuto da quel messicano un’impressione troppo buona per non farsene dei gravi sospetti. Poi tornò rapidamente dal barbiere. Reginaldo, rasato e impettito davanti allo specchio, ormai aveva l’aspetto di uno squadrista della prima ora e, dopo aver salutato i presenti col braccio teso, uscì fuori a passo marziale. Ferdinando è un nome che assomiglia al mio, voglio andare in questa piazza – si disse Reginaldo, tenendo tra le mani, aperta come un giornale, una carta topografica della città che aveva appena comprato. Era buio da un pezzo, veniva giù dal cielo un fresco diluvio autunnale e il messicano iniziò a risalire la via Chiaia di gran carriera. Quando sfociò nella piazza, La Cruz lesse da una lapide che si trattava di piazza Trieste e Trento, mentre secondo la sua carta, che risaliva all’anteguerra, doveva trovarsi a piazza S. Ferdinando. Inizio a capire il meccanismo! – pensò La Cruz – E’ come la storia di Egidio La Croce! Nel fascismo ogni persona e ogni cosa deve avere due nomi! Quello vero e quello falso, e all’occorrenza quello falso è più vero del vero! Assorbito in queste congetture, iniziò a sentire una musica d’orchestrina proveniente dalla sala superiore del Caffé Gambrinus e, per ripararsi dalla pioggia, decise di accomodarsi a bere qualcosa. All’ingresso un cameriere in livrea gli aprì la porta con deferenza, convinto che fosse un funzionario del partito. Lo sbirro lo seguì al piano superiore e prese un tavolo vicino, immerso in sospetti che lo inquietavano sempre più. Parla messicano, i bolscevichi devono averlo arruolato tra i vermi di Zapata – pensava lo sbirro, mentre in sala risuonavano i primi applausi alla fine dell’esecuzione di Giovinezza, con cui ogni sera l’orchestrina era libera di doversi scaldare. Cameriere! – urlò La Cruz in quel fragore – Asti Cinzano! Una spia rossa in missione all’estero non si scoprirebbe mai ordinando una vodka. – arguì lo sbirro – Da Mosca gli avranno ordinato di farsi servire solo roba fascista. Prego, signore – fece il cameriere, posando sul tavolo di Reginaldo il Cinzano e un programma musicale della serata. Dirige il maestro Vincenzo Ricciardi. – disse Reginaldo leggendo il foglietto – Questa roba mi può servire per imparare l’italiano. Tirò fuori un rotolo di banconote e mise il programma nella fondina. Ordinando un Cinzano dopo l’altro, La Cruz si fece prendere dalla musica e dalla voce della cantante.

Alla nona ordinazione, usando le mani, fece capire al cameriere di voler avere per iscritto i testi di quelle canzoni e gli allungò una mancia spropositata. Il cameriere, in visibilio, corse a chiedere un cambio e andò a trascrivere alla meglio i testi di tutte le canzoni napoletane che ricordava a memoria. Quando tornò da Reginaldo gli consegnò, su un vassoio da portata, un plico di cinque fogli che aveva vergato su entrambe le facciate. Grazie, ragazzo! – fece La Cruz in messicano – Le imparerò a memoria, così inizierò a parlare la vostra lingua. Lo sbirro non si era perso una mossa di Reginaldo e con l’aiuto di qualche cicchetto inseguiva strade ormai tutte sue, così arrivò alla conclusione che Lenin, dopo i pochi mesi trascorsi a Capri prima della guerra, doveva essere tornato in Russia con la convinzione che la canzone napoletana fosse un prodotto del capitalismo degno di essere diffuso al proletariato mondiale. Verso le due di notte, quando l’orchestra si congedò, Reginaldo pagò ventisei coppe di Asti Cinzano e un caffè corretto, poi localizzò sulla carta topografica l’albergo in cui alloggiava Floyd e decise di andare a dormire. Queste porche spie rosse quando sono in missione all’estero si prendono tutti i lussi che Stalin ha tolto di mezzo a Mosca! – si disse lo sbirro infradiciato dalla pioggia, mentre Reginaldo scompariva dietro la porta girevole dell’hotel Excelsior.

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