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Serviva una strategia per rendere il Napoli internazionale. E non c’è stata

Serviva una strategia per rendere il Napoli internazionale. E non c’è stata

Ho letto con estremo piacere l’articolo di Raniero Virgilio sull’internazionalizzazione del Napoli. Mi è parso di capire che, secondo l’analisi di Raniero, la volontà di immaginarsi squadra internazionale sia necessitata (allargare i bacini di “utenza” e quindi i fatturati). Da questa necessità ne scaturisce un’altra: aver bisogno di un allenatore che sappia tradurre la volontà aziendale in schemi e linguaggi propri al mondo continentale. Trovandosi l’Italia calcistica (ed ahimè non solo) alla periferia dell’impero, disabituata come è a misurarsi con il calcio europeo, abbiamo bisogno di un allenatore che questa linguaggio conosce. Ed ecco spiegato il perché della volontà di affidarsi a profili con esperienza europea (Benitez, Emery, al limite Spalletti).

Da questo assunto scaturirebbe un conflitto culturale fra gli usi propri della cultura continentale e quella nostrana, maggiormente abituata al concetto di mazze e panelle, rispetto alle logiche di professionalità (definizione degli obiettivi dei comportamenti premio/punenti).

Devo dire che la tesi dell’internazionalizzazione convince e non poco. Mi sembra condivisibile e penso che sia veramente l’obiettivo dichiarato della proprietà. Ma non credo che alla definizione dell’obiettivo siano seguite le giuste strategie per raggiungerlo. E sono queste strategie che, a mio modesto avviso, hanno creato il corto circuito culturale di cui Raniero parla.

Provo a spiegarmi. Una società che ha risorse limitate come il Napoli, vuoi per bacino di utenza vuoi per posizionamento geografico/economico (e quindi sponsor territoriali, merchandising, ecc), dovrebbe sapere benissimo che non potrà mai competere nel calcio che conta giocando con i soldi. Non si potrà mai comprare tutti quelli che servono per vincere, in questo giuoco vincono altri. Non si spiega quindi l’atteggiamento del Napoli che, quando decise di iniziare il percorso di internazionalizzazione, propose al mondo intero un immagine di società ricca con grandi capacità di spesa e capace di comprare praticamente chiunque. Ricorderete tutti che all’arrivo di Benitez fu fatta la spesa al Real Madrid e che a lungo si parlò di Jackson Martinez e Mascherano. E’ fisiologico che il tifoso, l’ambiente si aspettino di proseguire su questa china anche l’anno seguente. Se poi al posto di Mascherano riprendi Gargano (con il dovuto rispetto) il tifoso si sente preso in giro, tradito, non ti crede più.

Anche poi nel fronte della gestione societaria si è creata una spaccatura tra la definizione degli obiettivi e le azioni effettivamente messe in campo. Una società con respiro internazionale mette nei posti chiave dirigenti ed amministratori capaci e di riconosciuta professionalità. I soldi per pagarli ci sono (cfr. compensi per amministratori), la voglia è mancata. Si è assistito al solito familismo amorale, dove nei posti chiave si son messe persone di famiglia e “costi trasferiti”.

A mio parere la spaccatura far Napoli e il Napoli è figlia di queste due problematiche e non di invidia, distanza culturale o altro.

Arrischio a dire che la frazione Napoli/Napoli Calcio non è neanche figlia dei risultati. Noi un Napoli in queste posizioni di classifica (sia Nazionale che Europea) e per tanto tempo l’avevamo viste poche volte (forse nell’era Maradona), eppure non siamo felici. Ritengo sia vero che tifiamo Napoli per passione, al di là del risultato come si dice. Ma nonostante i risultati siano buoni, come detto, contestiamo. E allora la contestazione è figlia del tradimento delle promesse, della delusione delle attese, della mancanza dio coerenza nel perseguimento dell’obiettivo e non nell’obiettivo in se stesso.

Sono sicuro che il tifoso napoletano avrebbe anche accettato di “pazientare” qualche anno se avesse riconosciuto una volontà della società di costruire qualcosa di solido e duraturo, se avesse intravisto il famoso business plan. Tanti avrebbero barattato di gran lunga Higuain & company, la Coppa Italia e la SuperCoppa, con un centro sportivo di livello Europeo, uno stadio di livello decente, una rete di scouting che ci garantisse almeno la copertura dei territori a noi prossimi, una struttura societaria capace di interloquire con il mondo circostante in modo autorevole e una guida tecnica che sposasse questo progetto per un lustro. Questa strategia non l’avremmo inventata noi: è quello che grandissime società hanno più volte fatto nella loro storia. In ambito Europeo un fulgido esempio è l’Ajax o addirittura il grande Barcellona che nel decennio 1996/2005 si ricostruì spostando il focus sulla propria primavera da cui sono usciti i più grandi protagonisti dell’attuale squadra. Stando più prossimi a noi, gli orridi sabaudi, negli anni successivi a Calciopoli hanno applicato esattamente la strategia sopra descritta: costruzione di Vinovo (centro sportivo), stadium, rete osservatori, organigramma societario e grandi relazioni istituzionali, trascurando i risultati nel breve periodo.

La grande paura di oggi è che il treno sia passato. Oggi la società chiude in perdita e può contare quasi esclusivamente sulle risorse provenienti dalle televisioni. Televisioni, bisogna rimarcarlo, che non sono in grandi rapporti con la società per la cronica incapacità di relazione della società con il mondo esterno. E noi sappiamo, contando sulla sapiente penna di Italo Alloggi, cosa avremmo dovuto comunicare nel momento clou della stagione. Ma noi abbiamo De Laurentis junior che di quello che bisogna dire “se ne frega ma anche no”….

Forza Napoli, sempre!
Antonio Coppola

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