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Nel sessuofobico calcio mancava la Napoli rapace. Viaggio storico-letterario nella città evocata da De Laurentiis

Nel sessuofobico calcio mancava la Napoli rapace. Viaggio storico-letterario nella città evocata da De Laurentiis

Età: sotto i trenta anni. Reddito: dai 160 mila ai 400 mila euro al mese. Benefit: muscoli, spalle, polpacci, tutto. Stato civile: single. A volte no, ma non è detto che in talune circostanze sia un problema. Uno si ritrova questo bendidio dentro la propria persona e le tentazioni non le chiama neppure con il nome che noi altri le diamo. Sono occasioni, occasioni e basta, sono divertimento, più o meno ciò che senza il peso dei sensi di colpa e senza la dottrina del pauperismo medievale saremmo tutti d’accordo nel battezzare vita. Con un uomo che vive avendo il pacchetto deluxe incorporato sarebbe rapace finanche Pedesina, provincia di Sondrio, il Comune più piccolo d’Italia, figuriamoci Napoli. 

È vasta la letteratura su Napoli città del vizio, come vasta è l’aneddotica sui calciatori che nel corso dei decenni l’hanno assecondata. Non vale neanche la pena provare a mettere in fila gli episodi attribuiti a Maradona, una biografia da animale notturno come nessun altro tra i seni di Posillipo e il ventre di Napoli. Già la prima volta che la folla rimuginava su propositi di scudetto, si mise di mezzo la città rapace. Sallustro andava al Teatro Nuovo tutte le sere. Quando si innamorò di Lucy d’Albert (nella foto), ed era amore non copula fredda (con tutto il rispetto che si deve alla copula fredda), gli diedero la colpa di un primato in classifica diventato in fretta terzo posto. La soubrette diventò sua moglie, gli diede un figlio, ma niente, era comunque lei la perdizione, era la colpa, era la causa. Non c’è un ambiente più sessuofobico del calcio. La chiesa se la gioca, ma a certi livelli non ci arriva. La bella vita di Maradona e Sallustro – così la chiamano la “bella vita”, fateci caso, la “bella vita” è un rimprovero – erano indicati come i motivi delle disfatte, quasi a credere che nei giorni di gioia, dei gol e delle vittorie quei due facessero vita di contemplazione e castità.

A William Garbutt, l’allenatore inglese che fu il Benitez dei primordi, bastò smettere di fumare la pipa e passare alla sigaretta per diventare nella voce del popolo un uomo che se la godeva. E vogliamo parlare di quello che successe fra Altafini e Barison? Il primo, già sposato con una ragazza brasiliana, un giorno scopre il piacere di stare in compagnia della moglie del secondo. Quello che in genere chiamiamo innamoramento. La donna, tre figli, lascia suo marito e si mette con José. Il Napoli non vince più. Scandalo. È la bella vita. Un giorno che nel ritiro della squadra si presenta Eleonora Vallone, la figlia di Raf, trenta anni e un festival di Sanremo alle spalle da conduttrice, Ottavio Bianchi barrica i giocatori nell’hotel del ritiro e mette alla porta l’arma di distruzione di massa. Passava per un dongiovanni nel 1980, e a giusta ragione, il terzino Marangon. Il via vai di belle ragazze che c’era a casa sua, in via Petrarca, era paragonabile solo al traffico pedonale di San Gregorio Armeno sotto Natale. Eppure la cosa non gli impedì di essere uno dei migliori del campionato. Edinson Cavani, Sua Marmoreità, ci ha dato 104 gol in 3 anni, per poi partire accompagnato da una maglietta folk e da uno slogan: “Si’ venuto c’’a Bibbia e te ne si’ gghiuto cu ‘a cummara”. La bella vita. Una colpa. 

Eppure De Laurentiis è uomo di spettacolo, dove non risultano né registi mandati in ritiro per tenere alta la concentrazione prima di girare, né attori praticanti la continenza durante le riprese. I più grandi flirt della storia del cinema sono nati sui set, durante la lavorazione, eppure i film sono stati dei capolavori se erano capolavori, e schifezze se tali erano destinati a essere. Non è la bella vita a far brutti i campionati, non è la brutta vita a renderli indimenticabili. Niente di nuovo neanche stavolta, se non forse nella scelta linguistica di De Laurentiis, giacché per definizione Napoli si è sempre detta tentacolare, come la sua architettura urbana. Tentacolare è un giusto termine di mare e in più richiama il caliginoso habitat della Piovra. Città tentacolare era Napoli già per Tommaso d’Aquino e per Boccaccio, città di goliardi e clerici vagantes, di fannulloni senza fissa dimora e fissa compagnia notturna, una mescolanza eccitante di soldati, mercanti e scirocco. 

Ma se la città tentacolare avvolge e stringe, la città rapace agisce in modo differente. Potrebbero non essere la stessa cosa, seguendo il filo linguistico del presidente. La città tentacolare in fondo non divora. Gli artigli sono altro. La città rapace è ingorda di cose altrui, aggredisce con la sua insaziabilità. Rapaci e pure insolenti erano infatti detti gli Aragonesi da Camillo Porzio in “Della congiura dei Baroni del Regno di Napoli contra il re”. E poi a pensarci bene rapaci sono le occhiate che “nelle soste continue, dalle macchine a destra e sinistra gli affiancatori lanciavano a Luce” (Ruggero Cappuccio, Fuoco su Napoli); “occhio di rapace, ma non malvagio” si posa sul Duca di Anna Maria Ortese (Il cardillo innamorato); rapace è l’occhio dei ladri per Maurizio De Giovanni (Il metodo del coccodrillo). La rapacità è fisica, è davvero sensuale. Sono rapaci i denti del Lupo di Luigi Compagnone che parla a Pulcinella (Ballata e morte di un capitano del popolo), sono rapaci le mani del padre “quelle poche volte che veniva a rapinare mia madre” (Domenico Rea). Ma più di tutti sulla via della comprensione ci mette Domenico Starnone quando scrive (Prima esecuzione) che rapace è un’aura, e come tutte le aure strappa ai meno dotati le poche cose che hanno. 
Elena Amoruso

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