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A Berlino con un tifoso del Karlsruher a parlare di Gargano (e non solo)

A Berlino con un tifoso del Karlsruher a parlare di Gargano (e non solo)

Gli inviti a pranzo nelle domeniche invernali di pieno campionato portano sempre con sé un sapore contrastante. Sai che starai bene con gli amici ma anche che dovrai renderti clandestino per rimediare un parziale del primo tempo della tua squadra del cuore.

Sono ospite del mio amico Marco – tedesco dal nome italiano; vive in un antico appartamento berlinese, completamente rinnovato, in Prenzlauer Allee. Da lontano si vede Alexanderplatz con la sua torre che un giorno vegliava sulla calma apparente di Berlino Est e oggi certifica le serate hipster di mezzo continente.

Al termine del pranzo Marco è chiaramente nervoso e intuisco che si avvicina il fischio d’inizio della seconda divisione della Bundesliga, quella che per qualità ricorda in modo preoccupante la medio-bassa classifica di Serie A ed in cui milita il Karlsruher, la squadra della sua città d’origine. Quando i padroni di casa biancoblù vanno in vantaggio e si fanno immediatamente raggiungere e bloccare definitivamente sul pareggio, mi racconta del loro destino altalenante in questo campionato, un cammino costantemente incerto che non lascia spazio a sogni tranquilli, e qui taccio e vesto i panni dell’amico sinceramente incuriosito perché “Zitto a chi sape ‘o juoco” non saprei tradurlo in nessuna lingua a me nota. Così mi spiega che è un affiliato del suo club e paga quaranta euro annuali solo per poter dichiarare di esserne parte, al che forse mi mostro un po’ sorpreso poiché immediatamente sente la necessità di chiarirmi quanto tutto ciò sia normale per lui, che in quello stadio soleva incontrare i suoi beniamini quando andava a fare ginnastica da ragazzino e ora, da adulto padre di famiglia, ha scelto di vivere a seicentocinquanta chilometri da lì.

Mi chiedo allora cosa certifichi quel tesserino da affiliato. Di sicuro l’esistenza di una fede che va in qualche modo alimentata e pagata, ma ancora piu’ certamente di una contraddizione di fondo, di un rapporto problematico ma fecondo con le proprie origini. Certifica una irrequietezza interiore che in qualche modo si manifesta ogni settimana su un campo di calcio, da qualche parte nel mondo.

Quando Karlsruher e Fortuna Düsseldorf tornano negli spogliatoi e la tv si spegne, a sentire un principio di secchezza delle fauci sono io, che so che per la prossima ora e tre quarti, in cui non vedrò la partita, dovrò sorridere e dissimulare, lottando con le mie voci interiori per evitare di esserne sopraffatto. Allora tocca a Marco contraccambiare mostrando un minimo di misericordia verso di me, iniziando col sommergermi di alcuni dei vocaboli tedeschi più strambi da ascoltare per un italiano.

Mi cita così il Vergangenheitsbewältigung – un singolo e miracoloso termine con il quale in Germania si indica la lotta che è necessario attuare per fare i conti con il proprio passato. Il contesto in cui questa lotta si manifesta è variabile; nella Berlino di fine secolo scorso ed inizio nuovo millennio ha assunto spessissimo un ovvio significato storico-politico, ma può riferirsi ugualmente ad una comunità di cittadini come ad un singolo individuo. Tutto, al mondo, per vivere, ha bisogno di chiedere, a cadenza regolare, uno schietto redde rationem al proprio passato, giungere a patti, chiarire i compromessi, mostrare le ferite che si incideranno per evitare che esso si perpetui su un lettino psichiatrico o in un’aula di Parlamento.

Allora, mentre inizio a sudare meno freddo grazie al sopraggiunto raddoppio di Gabbiadini, di cui mi informa segretamente un benedetto cellulare, gli racconto di come a me sembra che per la prima volta, lentamente, a Napoli qualcuno stia proponendo di ridurre il nostro contenzioso con il passato, aprirne finalmente i libri contabili e cominciare a stralciarne una parte. E di come questo processo stia partendo curiosamente dal calcio, perché proprio il calcio, con le sue clamorose vittorie degli anni ottanta, ha contribuito a inocularci il virus della irripetibilità e della costante e profonda sfiducia nel domani. È stata, quella, la sbornia dalla quale si fatica quotidianamente ad uscire.

Mi capita di parlargli di Walter Gargano, del suo inizio napoletano, del suo passaggio ad altre squadre, del rancore livoroso che continua a svolazzargli attorno, e della partita di Coppa Italia, nella quale è stato scelto da un allenatore poco indulgente con i richiami della pancia della piazza, o da uno spogliatoio fin troppo avulso dal contesto cittadino, o solo dall’intelligente ironia sottile della storia, come capitano del Napoli, fascia al braccio, verso la vittoria contro la sua ex Inter. Ho visto un altro tassello nella lezione che stiamo ricevendo da questa squadra: (per rispondere a chi ha preteso il contrario) no, nessun giocatore affamato di vittorie, nessun allenatore ambizioso può considerare Napoli oggi un punto di arrivo. Forse non dovrebbero considerarla tale, inimitabile ed irriducibile, neppure i suoi cittadini. Proprio questa sembra essere la lezione. Forse dovremmo riscoprire la nostra natura portuale ed assaporare la bellezza di questi mutamenti, di uomini che partono e ritornano, di semplici artigiani del pallone o sublimi campioni che vedremo allontanarsi e tornare, a farci goal o a farne per noi. Non devono inchinarsi dinanzi a nessun vessillo imperiale, devono solo portare la fascia di capitano e navigare in questi turbolenti cicli della storia.

Mentre Théréau ridona all’Udinese la fiducia e a me la tachicardia, leggo le vicende del Karlsruher. Un inno dell’incostanza e della storia lontana e pesante. L’ultimo titolo tedesco risale a più di cento anni fa, poi salite e discese dalla seconda divisione. Ma “ciò che conta è continuare a fare la cosa giusta”, perché la corsa ha valore sempre sulla lunga distanza e bisogna imparare a sopportarne la ciclicità, con quella pazienza mista a fatalismo, quasi quella strana fiducia, di cui i tedeschi – che sprinter non sono mai stati – sono buoni maestri. Una fiducia che può infondere solo una comunità che in questa lotta paziente sul saliscendi degli eventi e dei campionati si sappia riconoscere almeno in parte. Magari anche pagando un biglietto di accesso di quaranta euro all’anno solo per ricordarsi di essere lontani.

Stasera, in un salotto televisivo campano, c’è ospite un campione azzurro del passato. Di quel passato. Attorno lo incalzano, gli chiedono com’erano quei giorni, lo pregano di regalare qualche stralcio di racconto. E lui, educato e pacato, costruisce qualche aneddoto, lo dispensa ai presenti, eh sì erano altri tempi, e quella sensazione tangibile che tutto quanto avvenga oggi sia, tutto sommato, un pallido ricordo, un tentativo frustrato di toccare una sacra reliquia. Così, granello a granello, si costruisce il macigno e lo si lega alle gambe degli appassionati, dei tifosi e dei cittadini – il passato, anzi il Vergangenheit, con tutta la durezza e la pesantezza di questa parola, il cui suono ora inizio a spiegarmi e a assaporare.

Passo volentieri, allora, a qualche immagine di repertorio del Napoli 2007/08. Negli stessi undici titolari c’erano Hamsik e Montervino, Lavezzi e Savini. Una formazione tanto inconsistente quanto geniale, col senno di poi. E c’era già Gargano. Non si era arreso allora a quella maglia, e non si arrende oggi agli striscioni. Mi pare abbia stabilito, in modo esemplare, il suo redde rationem

La partita al San Paolo si chiude sul 3-1, io spezzo il fiato e mi accascio sul divano. Spossato, ma ho netta la sensazione che questa volta stiamo veramente scrivendo qualche pagina diversa. Almeno qualcuna.

Tutto sommato questa di stasera è Berlino, la città nella quale, nell’ultimo secolo, tutti si sono illusi di marciare per spalancare le porte alle future ere imperiture. E sono finiti tutti dispersi e lontani. È rimasta invece una canzone, tra le tante, quella della Dietrich. “Ho ancora una valigia a Berlino”. 
E con le valigie nessuno è mai dovuto scendere a patti.
Raniero Virgilio

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