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Per Benitez, chiamatemi Rafè significava non sono un pirla

Per Benitez, chiamatemi Rafè significava non sono un pirla

“Chiamatemi Rafè”, disse il primo giorno e allora fu tutto un ammiccamento, una festa, le pacche sulle spalle, grande grandissimo cumpagno d’o mio. Napoli strizzò l’occhiolino a Benitez, decifrando quelle parole ascoltate all’esordio come un invito all’amplesso, all’orgia, pensava che sarebbe stato facile metterselo sotto il braccio e andarci a spasso, a cena, a letto, almeno a prendere un caffè. 

“Chiamatemi Rafè” invece quel giorno significava “non sono un pirla”, adesso lo sappiamo. Benitez ha capito tutto di questa città che pretende di costruire i suoi rapporti con il Das, una pasta scura e molliccia da amalgamare a piacimento, fino a renderla secca e dura, arida, fino a paralizzarla. Invece quindici mesi sono bastati a Rafa, passando dal “sin prisa pero sin pausa” fino allo “spalla a spalla”. Ma spalla a spalla con chi? Con un mondo che ha scoperto presto quanto Benitez fosse distante, quanto fosse un’altra cosa. Un mondo che si è defilato quando ha scoperto che Rafa le sue serate preferisce trascorrerle a Castel Volturno, magari guardandosi un dvd sul Chievo e senza rispondere al telefono, senza anticipare a nessuno la formazione, che grave colpa in questo gigantesco regno del ciù-ciù, retto dal nipote della cugina del vicino. 

E allora sono fiorite le critiche, sputate una alla volta, una dietro l’altra, gratuite come ossi di ciliegia. Prima la preparazione atletica a secco, c’è troppo pallone negli allenamenti e poco fondo atletico. Poi il ruolo di Hamsik. I giorni di riposo alla squadra: troppi. Le vigilie trascorse dai calciatori a casa e non in ritiro: inopportune. La mentalità offensiva: non è adatta al calcio italiano. Pochi italiani nella rosa: ci sono troppi stranieri e di diverse nazionalità, non faranno mai una squadra. Non sa motivare, è muscio, non trascina, invece guardate Conte, invece guardate Mourinho. La squadra non fa mai fallo. Non ha polso. Il Napoli batte Bologna e Chievo? Sì, ma bisogna aspettare un test più serio. Batte Borussia e Milan? Sì, ma con un uomo in più contro i tedeschi e soffrendo troppo a San Siro. Vince con un gol nel finale? Sì, ma questa squadra sbaglia sempre l’approccio alle partite. Va subito in vantaggio? Sì, ma si fa raggiungere nel finale. E poi non rimonta mai. Batte Livorno e Torino? Sì, ma sbaglia le partite con le grandi squadre: guardate com’è finita a Londra, a Roma, in casa della Juve. Batte l’Arsenal, la Roma e la Juve? Sì, ma perde punti con le piccole. Finisce terzo? Adesso deve vincere la Coppa Italia per salvare la stagione. Vince la Coppa Italia? Tanto l’aveva vinta pure Mazzarri. Mentre a guardarsi intorno pare che Allegri sia incolpevole per il patatrac del Milan, che Mazzarri all’Inter abbia fatto miracoli, che Montella sia diventato un nipotino di Rinus Michels. Zero tituli in tre, come direbbe quello là. Fino alle ultime critiche, le nuove. Il muscio, l’uomo di poco polso è diventato una specie di sergente che non sa tenere la disciplina, guardate il caso Insigne, guardate com’è nervoso Callejon, guardate Behrami, Higuain se ne vuole andare. È aziendalista. Poi la squadra si abbraccia a metà campo a Marassi, gesto forte e inedito, e allora spunta la storia delle ferie. “Il Napoli è la bandiera della città e dobbiamo portarla tutti insieme”, dice oggi Benitez. D’accordo la bandiera. Ma tu intanto, Rafa, porta la croce. 

Elena Amoruso

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