ilNapolista

Prendiamone atto, il calcio è business, odio e violenza: meglio chiuderlo

Qualcuno fermi la spirale di odio negli stadi italiani. Il disperato grido d’allarme di Massimiliano Gallo è drammaticamente fondato ma, forse, è indirizzato alle persone sbagliate. Gli interlocutori chiamati in causa sono gli ultimi responsabili in termini temporale, ma non per la gravità, della disastrosa deriva dello sport in Italia e del calcio in particolare. Claudio Velardi ha scritto che il tifo è merda, ci fa sognare radici che non abbiamo più. Il suo manifesto nichilista è perfetto: per lui è una conquista, per me è la resa incondizionata. Storicamente il problema nasce da lontano, a partire dall’errore dei padri costituenti che non vollero introdurre nella costituzione italiana lo Sport come valore sociale, tra i principi fondanti della nazione, per la sua contiguità con la cultura sportiva del fascismo. Tutto questo ha comportato come effetto naturale una assoluta discrasia tra lo sport e la scuola, dal momento che l’attività sportiva nella scuola è divenuto un optional per quelli che se lo possono permettere. Il nodo fondamentale resta dunque la mancanza nel paese di un cultura sportiva che, con il passare degli anni, si è spogliata di qualsiasi finalità di formazione spirituale per divenire in misura esponenziale il contenitore di ogni malessere sociale, sostituendo nei suoi effetti perversi l’antico effetto terapeutico della guerra.

Le responsabilità del degrado culturale dello sport sono naturalmente molteplici, ma è sensato ritenere che il fenomeno dilagante della sottocultura dello sport sia legato alla progressiva dismissione dei programmi sportivi della Rai a beneficio delle tv commerciali che hanno letteralmente colonizzato il paese con modelli culturali estranei alle tradizioni italiane. La calcistizzazione definitiva del paese è stata attuata da una rete di lobby di potere che vivono fuori dalle regole, perché sono esse stesse che dettano le regole. Mediaset e Sky si sono accordate con le grandi squadre per la spartizione dei soldi dei diritti televisivi e hanno invaso, senza alcuna opposizione, il tempo libero degli italiani adattandolo alle proprie esigenze commerciali.

Nelle società sono arrivati i soldi del malaffare dei Tanzi dei Cragnotti. La Gea si è consolidata tutelata da Geronzi e dalle sue triangolazioni familiari con i Lippi, i Moggi, i De Mita e via dicendo. Presidenti come Preziosi, Lotito e Della Valle, che nei paesi anglosassoni non avrebbero mai potuto avere la proprietà di un club di calcio, nel nostro sistema fanno parte dei vertici federali. La Lega Calcio e i suoi presidenti, in prima linea il nostro De Laurentiis, anziché ridurre il campionato a sedici squadre, per ottimizzare la vicenda calcistica, come mero evento sportivo, perseguono invece un unico obiettivo: trasformare il calcio in industria per aumentare il fatturato ma rubandogli l’anima.

Il vero problema del calcio del nostro tempo è la sua presenza totalizzante che finisce non soltanto per escludere ogni altra forma di intrattenimento ma diventa un autentico fenomeno sociale che condiziona profondamente le consuetudini e i tempi di aggregazione delle persone, delle famiglie, delle pratiche religiose, come un mostruoso Leviathan nel quale ognuno si rinchiude. Gli effetti sonno poi devastanti nel mondo della sottocultura degli ultras, del tutto privi di valori di riferimento, che affermano la propria identità nell’illegalità e soprattutto nella violenza. A questo punto contro la spirale di odio negli stadi non c’è alternativa, se non quella di ridimensionare il calcio nella realtà sociale del paese o addirittura, come propone provocatoriamente Francesco Caremani con assoluta coerenza, chiudiamolo ora, subito, senza remore.

Chiamare ancora in causa i vertici del calcio e dello sport è inutile. Il Coni, organismo di vertice, cui fa capo lo sport nazionale, ha propiziato ai fini del suo autofinanziamento la massiccia commercializzazione del calcio a detrimento di tutte le altre discipline sportive. La Figc ha secondato indiscriminatamente i disegni espansionistici della Lega Calcio e la commercializzazione selvaggia del prodotto calcio al punto che nella finale di Coppa Italia il Napoli ha schierato un solo giocatore italiano. È venuta meno ai suoi compiti istituzionali consentendo per anni ogni forma di discriminazione negli stadi contro i napoletani, lasciando che l’ineffabile Tosel sanzionasse ogni forma di violenza morale con la risibile ammenda di venticinquemila euro. Senza dire della tacita promessa agli ultrà di rivedere le norme del codice sportivo sulla discriminazione territoriale.

Una speranza, però, possiamo ancora coltivarla se le istituzioni e le società cominciano a combattere la violenza e l’odio. Facciamo partire da Napoli e dal Napolista un messaggio alternativo, in controtendenza all’odio, ispirato all’amore e alla forza della nostra intelligenza, per aiutare gli altri a ritrovare quei valori perduti. Altrimenti chiudiamo con il calcio, perché noi sapremmo cosa fare delle nostre domeniche.
P.S. Scusami Caremani, l’ho scritto io per primo un anno fa.
Antonio Patierno

ilnapolista © riproduzione riservata