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Ebbene sì, ho condannato Maradona per la mano de Dios, e vi spiego perché (c’entra la Juve)

Potrà sembrare strano che un magistrato confessi qualcosa, ma devo necessariamente farlo: ebbene sì, io sono “quel” giudice che ha condannato Maradona.
Ne ha parlato su questo sito l’avvocato Claudio Botti, napoletano maradonista e napolista della prima ora (ed anche delle successive, se è per questo), qualche giorno fa.
Per scherzo, certo – eravamo nell’ambito del Festival del Diritto e della Letteratura di Palmi – ma Maradona l’ho condannato davvero.
E sono convinto di aver fatto bene.
Perché vi scrivo?
Perché dopo aver letto il resoconto dell’avvocato Botti una parte di me ha sentito, per la prima volta dopo diversi anni di lavoro, il forte desiderio di giustificarsi. Di spiegare, di spiegarmi: al di là della motivazione pure resa in pubblica udienza.
Qualcuno (non pochi, di questi tempi, temo) potrebbe osservare che una volta tanto ad un magistrato non faccia male salire sul banco degli imputati e difendersi da un’accusa: che, nel caso in esame, è ovviamente quella di Lesa Maestà.
L’ennesima ingiustizia subita da Diego, terminava l’appassionato articolo di Claudio Botti.
Il punto non è questo.
Non è infatti il magistrato che chiede asilo alle colonne (ma un sito internet ha ancora le colonne?) de Il Napolista per spiegare il perché di una così indigesta decisione, ma il tifoso del Napoli.
Ebbene sì. Perché io sono entrato in magistratura nel 1999, ma sono tifoso del Napoli dal 1969: ovvero, dall’anno della mia nascita.
Sono così tifoso del Napoli che uno dei miei primi ricordi d’infanzia è legato ad un surreale Napoli – Juventus giocato da… cani addestrati, sotto il tendone di un circo di stanza dalle parti di viale Kennedy (anzi, vicino “all’Endelandia”, come si diceva allora storpiando il nome del nostro compianto parco giochi cittadino).
Già, a giocare con una piccola palla di gomma erano due squadre di piccoli cagnolini addestrati: gli uni con i colori del mio cuore, gli altri con l’inconfondibilmente detestata e detestabile casacca bianconera.
A quell’età ignoravo che, per non scontentare nessuno, quella partita non poteva che finire con un pareggio. Ciò spiega perché ci rimasi malissimo quando un cagnetto tracagnotto con il numero dieci sulle spalle (era ovviamente il numero dieci sbagliato: aveva un accento francese…) siglò il definitivo uno ad uno. Non scherzo. Ci rimasi male davvero, al punto che ancora oggi lo ricordo.
Questo per far capire “quanto” sia tifoso del Napoli.
E allora perché condannare Diego per la mano de Diòs del 1986?
Semplice. Perché quello che ha fatto all’Azteca (e poi rifatto in diverse altre occasioni, anche e soprattutto con la maglia del Napoli) non si fa. Non si fa, e basta.
E solo adesso, a sentenza depositata, posso dirmi sicuro di questa mia opinione.
Il dover decidere un caso così spinoso per la mia coscienza – e per il mio cuore – mi ha infatti costretto a ristudiare daccapo l’intero fascicolo “Maradona e la mano di Dio”, grazie anche ad un regalo inestimabile fattomi dall’avvocato Botti: una rara e preziosa copia del volumetto estratto dagli atti del Te Diegum, irripetibile convegno e vero e proprio grido d’orgoglio della Napoli pensante di fronte al dilagare del perbenismo che seguì la fuga di Diego dalla nostra città e la scoperta “ufficiale” della sua tragica tossicodipendenza.
Rileggendo tante appassionate difese della figura di D10, di ciò che ha rappresentato nella storia di Napoli (sì, nella storia: perché ormai solo pochi parrucconi accademici non accettano ancora il fatto che la storia di un popolo – specie di un popolo come il nostro – è fatta anche dalla storia del suo sport d’elezione, così come della sua cucina e così via) mi sono sentito un po’ come uno di quei perbenisti da un tanto al chilo che i protagonisti del Te Diegum intendevano sbertucciare. Riuscendoci appieno, a mio avviso.
Poi, al contrario, via via che mi passavano davanti agli occhi gli anni del post-Diego mi sono reso conto, caro avvocato Botti, che su di un punto avevate – abbiamo avuto – torto.
La difesa dell’umanità di Diego, delle sue sofferenze, delle sue debolezze umane – di cui tanti hanno approfittato, beneficiandone anche in termini economici e di carriera – era in effetti sacrosanta. Ne avessi avuto lo spessore culturale, sarei stato anche io un “tediegumista”, di quelli duri e puri.
Quante prediche che piovevano da sepolcri imbiancati (e credetemi, il riferimento alla cocaina non è assolutamente casuale); quanti rinfacci e sberleffi dovuti a indigesti pruriti partoriti da menti criptorazziste; quanta selvaggia gioia nel vedere che l’eccezione a quella che “doveva” essere la regola, ovvero la prevalenza delle squadre del Nord e del capitale di cui sono espressione, si era tolto dai piedi. E neppure elegantemente.
Però, scusatemi, la difesa di Diego e della sua memoria non può arrivare anche a coprire quella grande porcata che è stata la “mano de Diòs”.
Se è vero che la prima e più importante cosa che non è stata perdonata a Diego è l’aver scelto Napoli e non Milano o Torino per incarnarsi nel ventre del nostro calcio, è anche vero che noi napoletani abbiamo dato manforte a tanta livorosa invidia difendendo anche l’indifendibile.
E la “mano di Diòs” è indifendibile, credetemi.
Per due motivi principali, a tacere degli altri.
Il primo. È stato ed è un gesto pericoloso. Perché, nella sua geniale bellezza e semplicità – sì, caro Claudio (perché, se non l’avete capito, io e l’avvocato Botti adesso ci diamo del tu e siamo amici), l’ho detto anche io nella mia sentenza che è stato un gesto bellissimo, quasi neoclassico per purezza e senso del ritmo – dà a tutti l’idea di poterlo a loro volta impunemente ripetere.
Se “lo si fa bene”, lo “si può fare”. Questo è il senso, no?
Affermare che il Genio va oltre le regole; che tentare di frodare le norme e riuscirci – se si è così abili da non essere scoperti – non solo non è peccato ma è addirittura un diritto universale potrà anche essere sostenibile dal punto di vista dialettico, ma sicuramente non sul piano sociale: e specie nella nostra Napoli.
Eh già, perché a mio avviso uno dei problemi che affliggono la nostra meravigliosa città è proprio questo: che tanti, troppi si sentono geni senza esserlo – a differenza di Diego – e quindi, come dire, a fregare l’arbitro ci provano sempre. Che si tratti di tasse non pagate, di spazzatura buttata a bordo strada, di semafori non rispettati, di mazzette od altro, ci provano. Se poi l’arbitro – cioè lo Stato, cioè noi – ci casca, tanto meglio.
Ecco perché la potenzialità istigatrice, eversiva, del gesto c’è e rimane intatta anche a distanza di quasi trent’anni.
Troppi cretini che si sono autopromossi a geni, ecco il punto. Senza averne le capacità.
Io, per capirci, rivedo la “mano de Diòs” ogni volta che qualcuno cerca di fregarmi mentre sono in coda, oppure passa sulla corsia d’emergenza della tangenziale mentre io sto fermo come un fesso da trenta minuti incolonnato nel traffico, od ancora si inventa l’incredibile per giustificare ogni forma di piccola/media/grande prevaricazione ai miei danni.
Eh già, perché poi alle vittime, a Shilton ed agli inglesi, alla fine non ci pensa nessuno.
Che c’entra? Ve lo dico subito, perché è il mio secondo motivo di condanna.
Sarà forse la frequentazione delle aule di giustizia a farmelo dire, ma credetemi: essere vittima di una vera ingiustizia è qualcosa che ti fa stare male per la vita. Ti riprendi, certo, ma fino ad un certo punto.
Ora, siccome al Padreterno tutto manca fuorché il senso dell’umorismo – a volte anche amaro e scomodo, come si conviene ad un vero umorista – io sono da sempre terrorizzato dalla seguente visione.
Finale di Champions League, Napoli-Juventus. All’85’ il pallone carambola alto su Pepe Reina (che, tranquilli, nei miei sogni ha rinnovato per i prossimi centoventi anni) in uscita. Arriva come un lampo Carlitos Tevez, che tocca la palla che finisce in rete. Il replay non lascia dubbi: fallo di mano. L’arbitro – strano, trattandosi della Juve (…) – non lo vede e convalida. Fine della partita e fine dei sogni.
Nel dopopartita Tevez, sghignazzando, afferma che la palla l’ha toccata in parte lui ed in parte Diòs. Come nel 1986.
Ecco, a quel punto lì come faccio ad infuriarmi ed a meditare le più sordide e violente vendette contro gli avversari di sempre? Come faccio a rimanere zitto e ad incassare, memore delle copiose giustificazioni fornite al suo archetipo?
Dato che quella partita lì – che, non dubitate, prima o poi ci sarà – me la voglio giocare senza debiti con il Padreterno, mi sono portato avanti con il lavoro: e, da napoletano tifoso del Napoli, ho condannato Maradona.
Concludo quindi la mia autodifesa dinanzi a voi tutti chiedendo pronunciarsi la mia assoluzione, essendo stata la condanna nei confronti dell’imputato Maradona Diego Armando pronunciata a ben vedere per eccesso d’amore. Verso la nostra squadra, verso la nostra città.
Antonio Salvati, magistrato in servizio presso il Tribunale di Palmi

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