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«Sara, se resti in Italia non diventerai mai una giocatrice»

Ci sono momenti in cui i granelli della terra rossa riempiono cuore e polmoni più di qualsiasi emozione. Ne sa qualcosa Sara Errani: sconfitta in finale al Roland Garros da un’impeccabile Maria Sharapova, attualmente la più forte del mondo. Il tutto ventiquattr’ore dopo aver alzato il trofeo del doppio, giocando, unico caso tra le colleghe, un match al giorno in quel di Parigi. Nonostante la delusione, il secondo posto nello Slam più amato dagli italiani è la ciliegina di un 2012 superlativo, partito a gennaio dalla posizione n.42 nel ranking e giunto ad oggi con l’ingresso nella top ten mondiale.

A Parigi la tennista di Massa Lombarda ha giocato a testa bassa, sfoderando un’intelligenza tattica capace di colmare le note carenze fisiche (24 centimetri in meno della Sharapova) e tecniche (servizio lento), annientando l’ex regina del Roland Garros Ana Ivanovic e Samantha Stosur, tra le più muscolose del circuito. La storia di Sarita, Nanà o Chiqui, che dir si voglia, è semplice e straordinaria, eppure attualissima. Un po’ come quella di migliaia di giovani che per dare un seguito alla propria carriera sono costretti a fare le valigie e volare altrove, perché in Italia proprio no, non è possibile. Sara è una di loro, emigrante sin da bambina, quando un’altra grande tennista, Raffaella Reggi, le sussurrò: “se resti qui non diventerai mai una giocatrice”.

La famiglia, titolare di un’azienda ortofrutticola in Emilia-Romagna, si rimboccò le maniche assecondando i sogni di Sara, che a 12 anni partì (sola) alla volta di Bradenton, Florida, per entrare nell’accademia di Nick Bollettieri, celebre e dispendiosa fabbrica di campioni da cui sono usciti Andre Agassi e le sorelle Williams. “Telefonava piangendo tutte le sere, diceva che le mancavano le lasagne e i passatelli della mamma”, racconta papà Giorgio. In quella caserma di disciplina e talento la Errani incontrò Maria Sharapova. “All’epoca era piccolina quasi quanto me, portava l’apparecchio, ma non avevo mai avuto occasione di parlarle”. Lì, dalla siberiana rimediò pure una netta sconfitta (6-0 6-1) nell’unica partita giocata tra le due prima della finale al Roland Garros.

All’età di 17 anni il viaggio con libri e racchette è proseguito a Valencia, nella stessa academy di David Ferrer e Dinara Safina. Giornate che cominciano alle 8 del mattino e si susseguono tra allenamenti e formazione. Un sacrificio affettivo ed economico, anche per la famiglia, che ha dovuto staccare assegni annuali da 60.000 euro, tanti ne servivano per mantenere il soggiorno sportivo iberico. I soldi, croce e delizia di uno sport in cui Sara non ha mai avuto paura di osare: appena qualche settimana fa spiazzava gli addetti ai lavori pagando una penale di 30mila dollari allo sponsor Wilson perché innamoratasi di una racchetta più lunga e potente, ovviamente della Babolat. Prima il lavoro, poi il vil denaro e pazienza se ci vogliono anni di sudore per tornare in pari col capitale speso tra formazione e gavetta.

Alla fine la Errani è arrivata a Parigi, accompagnata dal fratello e dallo staff tecnico spagnolo che, all’unisono, assicura: “è completamente italiana, nel cuore e nel sangue”. Poi c’è l’affettuosa discrezione di mamma Fulvia e papà Giorgio, volati in Francia solo dalle semifinali, un po’ per scaramanzia e un po’ per non distrarre la figlia. Oggi Sara si intasca il secondo premio di 625.000 euro (più i 340.000 del doppio da spartire con la Vinci), manda in confusione il suo sponsor Nike (lo stesso della milionaria Sharapova) e fa tentennare la Federtennis italiana, che aveva pensato ad un riconoscimento economico in caso di vittoria, sulla scia di quello assegnato due anni fa a Francesca Schiavone.

Eppure, di fronte al (quasi) miracolo sportivo dell’ennesima italiana coraggiosa, viene da chiedersi se non sarebbe meglio incrementare le risorse per incentivare la formazione dei giovani talenti, che nel Belpaese stentano a decollare. E quando ci sono, volano all’estero come Gianluigi Quinzi, attuale numero 2 del mondo nella categoria juniores, con un passato in Florida (sempre da Bollettieri) e un presente in Argentina. La domanda è quella: perché non coltivare qui i nostri campioni e poi rivendicarne a pieno titolo la paternità? Alla federazione l’ardua sentenza. E a Sara Errani un applauso infinito.

Marco Fattorini (tratto da linkiesta.it)

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