Roma, Stadio Olimpico. Finale di Coppa Italia. Al momento dell’esecuzione dell’Inno di Mameli, dalla curva che ospita i tifosi del Napoli parte un’ondata assordante di fischi. Le alte cariche dello Stato e della Federcalcio presenti in tribuna condannano con sdegno solenne il gesto, bollandolo come “una manifestazione di inciviltà e di scarsa cultura”. Ma l’anatema istituzionale non riesce a nascondere il clamore e la risonanza di un atto che non è nuovo nelle competizioni sportive e pone alcuni interrogativi, tanto agli appassionati di calcio quanto agli osservatori della realtà sociale e culturale partenopea.
E’, l’espressione di una diffusa e profonda ostilità verso i simboli dell’identità nazionale e nei confronti del processo di realizzazione dell’unificazione italiana? A ragionare su una simile ipotesi è Paolo Macry, docente di Storia contemporanea all’Università “Federico II” e studioso delle relazioni fra istituzioni politiche, cultura e pratiche sociali nelle realtà moderne.
Ritiene plausibile pensare che la contestazione dei supporter degli azzurri abbia dato voce allo spirito di rivalsa del Mezzogiorno contro le modalità concrete in cui prese forma il nostro Risorgimento?
Sinceramente no. Penso che in uno stadio di calcio vengano messe in moto dinamiche peculiari a quel mondo, per loro natura umorali ed estemporanee. So che a Napoli cova da tempo un malessere che può rivelarsi anche attraverso quei fischi. Ma il gesto di alcune centinaia o migliaia di tifosi non rappresenta e non riassume lo stato d’animo né le tendenze profonde di una città e di un territorio. E nella realtà partenopea, così come in quella del Mezzogiorno, un sentimento anti-unitario e anti-nazionale simmetrico al “Roma ladrona” bossiano non esiste.
Perché?
Al Sud prevale piuttosto una critica, facile e corriva, del potere pubblico, dei partiti e della politica. Segno dell’atteggiamento bifronte che le popolazioni meridionali hanno nutrito nei confronti dello Stato fin dai tempi dell’ancient regime. Una sostanziale estraneità rispetto ai secreta imperii da una parte, e una forte e continua richiesta di protezione dall’altra. Si tratta delle due medaglie che distinguono l’attitudine dei sudditi verso uno Stato paternalistico, antitetico allo Stato di diritto moderno. Tale comportamento non mi stupisce nelle nostre regioni, in cui però non è mai prevalso uno spirito anti-unitario. Dalla Sinistra storica di Agostino Depretis al governo di Antonio Bassolino, il Mezzogiorno ha sempre svolto una funzione di raccolta del consenso, sia pure non ideologico ma utilitaristico. È stato storicamente un territorio filo-governativo e filo-ministeriale, mai all’opposizione. Le culture politiche antagoniste e innovatrici sono nate tutte nelle regioni settentrionali, mentre al Sud è stato sconfitto il “Vento del Nord” repubblicano e rivoluzionario dell’antifascismo e la monarchia è stata largamente votata nel referendum istituzionale del 1946.
Tuttavia nella società meridionale è presente una concezione assai critica del processo di costruzione dello Stato unitario, vista come “un’annessione predatoria, violenta e autoritaria compiuta a danno delle popolazioni locali”.
Sì. Parallelamente si è animata una tradizione rivendicazionista, che parte dall’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli e si fonda sulla contestazione delle politiche assimilazionistiche realizzate dalla Destra storica. Si tratta di un filone complesso, ricco di influenze eterogenee e contraddittorie, che spaziano dall’autonomismo riformista e illuminato mescolatosi poi alle campagne meridionalistiche, fino alle correnti neo-borboniche che si manifestano tuttora grazie a un’intensa attività pubblicistica. Anche se sono più deboli sul piano culturale e più marcatamente anti-unitarie, tali sensibilità pongono problemi reali relativi alla realizzazione del Risorgimento italiano. Temi che la cultura accademica spesso rifiuta di discutere, e che peraltro vengono penalizzati e ghettizzati dal folklore delle iniziative neo-borboniche.
Lo spirito di rivalsa che anima il filone rivendicazionista non è dunque così radicato nella cultura e nella società partenopea, come talvolta si immagina.
Rappresenta un fenomeno marginale e superficiale che periodicamente acquista visibilità e risonanza nazionale. E che in nessun caso può trasformare il Sud nel terreno fertile di spinte anti-unitarie, a differenza di quanto possiamo rilevare al Nord, fortemente penalizzato dal punto di vista fiscale e finanziario dalle richieste di aiuto e di intervento provenienti dalle regioni meridionali. Napoli è una città di uffici burocratici, di lavoro pubblico, di insegnanti e di pensionati. Un luogo dove gli argomenti anti-nazionali, autonomistici e indipendentisti che hanno solidi fondamenti nei territori settentrionali non hanno cittadinanza. Pensi ad alcune figure di spicco della realtà partenopea, a Giorgio Napolitano ma anche a Gerardo Marotta, un cultore della statualità unitaria teorizzata dal filosofo e giurista hegeliano Silvio Spaventa. È a Napoli e al Sud che la scuola giuridica italiana ha conferito la più alta legittimazione allo Stato nazionale e alla sua “eticità”. Non è casuale che nella nostra città, priva del sentimento separatista che caratterizza tuttora la realtà siciliana, non sia mai nato un Andrea Finocchiaro Aprile e un movimento indipendentistico.
Edoardo Petti (tratto da Linkiesta.it)