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Sveglia con il cane e Lavezzi

Premetto che la Roma ho preteso di guardarmela in assoluta solitudine. Assente previsto il figlio modenese-napolista (che però ha chiesto sms di aggiornamento ogni dieci minuti); spedite al centro commerciale in apertura straordinaria le donne, mollati al Tropical gli infausti e multiformi compagni di viaggio (che mi avevano dato buca per la trasferta rumena) con la scusa di un improvviso raffreddamento. Perché me lo sentivo che non avrei retto, che nonostante lo sguardo immutatamente critico, avrei sofferto e goduto. Che io la Roma la sento simile e insopportabile, vicina e ingiustificabile. Poi troppo avevo sofferto (e goduto) con la Steaua e troppo lo avevo fatto in pubblico per cui persino il cane mi ha guardato con sussiego per tre giorni. E il vicino (diciamo il più vicino: il rubizzo contadino il cui casale sta a un chilometro dal mio) mi ha tolto il saluto.
La decisione era dunque presa: da soli! Giusto il cane fuori di guardia, giusto i rospi sciabordanti in cortile, giusto i fagiani a starnazzare come oche del Campidoglio e a fare il tifo contro. Insomma, con tutta questa preparazione, dopo dieci minuti del primo tempo mi sono addormentato sul divano. Saranno state le bracioline di cotenna e il conseguente eccesso di lambrusco di Sorbara, sarà che (fatalista come sono) mi aspettavo un altro Chievo Verona… Sta di fatto che il 1° tempo non l’ho visto, proprio non me lo ricordo. Poi il cane ha cominciato ad abbaiare.
Mi sveglio e di là dal cancello c’erano tutti i miei compagni di viaggio: i braccianti egiziani, il PMI aversano con moglie al seguito, il gestore puteolano del Tropical, persino il vicino dalle guance arrossate. Si annoiavano senza di me. Ancora rintontito li ho fatti entrare con le loro bottiglie al seguito, appena in tempo per il secondo tempo e pian piano il mio aplomb anti-Mazzarri si è squagliato. Ho cominciato a godere per le veroniche del Pocho, per quella testarda beatitudine, quella deprecabile ed adorabile testa bassa.
Un piacere fisico alle folate di Dossena ai suoi cross destabilizzanti. Al goal di Marek, questo cucciolo pastore, questo fanciullo dalla voce da adolescente che fa l’imitazione del padre, ho cominciato a ballare un waka waka dei precordi, i ruffiani braccianti con me, la ridondante premiere dame del casalese arricchito ha messo in moto ogni curva, in una baby dance ammiccante. Con Campagnaro se ne è sceso il teatro. Quel po’ di voce residua dalla notte rumena è sparita. Si mimava la gioia, e si azzardava un tuca tuca con la matrona, quando il figlio mi ha chiamato sul cellulare e urlando mi ha chiesto un commento in diretta. Coi lucciconi all’altezza dell’intervista del Pocho ho annuito arreso: “è bell’ ‘o presepio, è bell’!”
di Paolo Birolini

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