Ancelotti: «Il calcio non è complicato e non va inventato. Il lavoro di allenatore è soprattutto un lavoro di relazioni»
A Tnt Sports: «La nuova generazione di allenatori cerca di dimostrare che il calcio è cambiato. Il modulo vincente non esiste. Il portiere deve innanzitutto parare sennò giocava a centrocampo»

Brazil's Italian coach Carlo Ancelotti conducts a training session in Sao Paulo, on June 2, 2025, ahead of the FIFA World Cup 2026 qualifier football match against Ecuador on June 5. (Photo by Nelson ALMEIDA / AFP)
Carlo Ancelotti ha rilasciato una lunga ed interessante intervista ai microfoni di Ttn Sports durante un episodio di “Ally’s Social Club”. Dall’approdo sulla panchina del Brasile all’infanzia in Emilia e ai momenti cruciali della sua carriera, passando per i principali temi d’attualità calcistica: ecco un estratto delle sue dichiarazioni riportate da Eurosport.
Carlo Ancelotti a “tutto campo”
Il primo argomento trattato è proprio quello della scelta di allenare la Seleçao: «Amo essere in Brasile. Non ci ero mai stato prima, devo dire che è un’esperienza fantastica anche se si tratta di un lavoro differente rispetto ad allenare un club. La nazionale brasiliana ha obiettivi fantastici: perché no, magari anche vincere i Mondiali 2026. Amo questo periodo che sto vivendo, forse ne avevo anche bisogno dopo così tanti anni vissuti tra allenamenti giorno per giorno, tantissime partite ravvicinate. Adesso ho più tranquillità, più attenzione soltanto sulla mia squadra. E devo dire che il Brasile ha giocatori fantastici, potremo sicuramente fare un grande Mondiale».
Sul ruolo dell’allenatore:
«La parte più importante del nostro lavoro è quella di gestire le relazioni. Se tu chiedi alla stragrande maggioranza dei giocatori “Chi sei?”, avrai come risposta “Io sono un giocatore”. No, no, tu giochi a calcio, ma sei un essere umano che gioca a calcio. Questa è una differenza enorme perché a volte, quando devi prendere delle decisioni, i giocatori confondono queste due parti, il professionista e la persona. Io ho sempre detto che i giocatori possono essere disturbati o arrabbiati con un allenatore in quanto allenatore di calcio, ma non con la persona. Perché io non sono un allenatore: il mio lavoro è quello di allenare, ma io sono un essere umano come te e devi rispettarmi come persona se io prendo una decisione contro di te nel mio lavoro. Dopo anni, anni e anni, la maggior parte dei giocatori capisce queste distinzioni. Ho fantastici rapporti, non con tutti ma con la maggior parte dei giocatori che ho allenato».
Aspetti tecnico-tattici:
«Quando iniziai ad allenare, venivo dal 4-4-2 di Sacchi e conoscevo soltanto quello. Non avevo l’esperienza per insegnare qualcos’altro, ma non avrei mai forzato le caratteristiche di un giocatore in quel modulo di gioco. Perché il calciatore resta la figura più importante di questo mondo e deve sentirsi a suo agio. Non bisogna focalizzarsi troppo sulle idee di modulo che si hanno, perché se poi i giocatori non sono a loro agio in quel sistema non si va lontano, non si ottiene successo. E non esiste un modulo vincente, il 4-4-2 ad esempio non è vincente per sua natura. Puoi giocare come vuoi, ma devi costruire un sistema, un modulo in cui i giocatori e l’intera squadra si sentono a loro agio, in cui i calciatori possano esprimere appieno le loro qualità. Questo l’ho capito per la prima volta quando sono andato alla Juventus, perché ci giocava Zinedine Zidane. Dove lo fai giocare uno come Zidane? A sinistra? A destra? Sei matto? Metti Zidane numero 10. Devi esattamente adattarti al genio del calciatore, il nostro lavoro è esattamente questo. Non bisogna inventare calcio, l’hanno già inventato».
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Sulla costruzione dal basso:
«La nuova generazione di allenatori prova a farci vedere qualcosa di speciale, cerca di dimostrare che ovviamente il calcio è cambiato, dell’importanza della costruzione dal basso. Certo, è un’idea fantastica quella della costruzione dal basso, ma dipende comunque dalle qualità che hai in squadra. Non penso che il Milan di Sacchi o Capello sarebbe stato eccellente nella costruzione dal basso, eppure… Ci sono partite in cui il portiere e i due centrali di difesa sono i tre giocatori che toccano maggiormente palla: c’è allora qualcosa di sbagliato. Ci sono persone che considerano un portiere per quanto è forte tra i pali, ma soprattutto per quanto è forte coi piedi. Ma è sempre un portiere! Perché allora se è così bravo coi piedi facciamolo giocare centrocampista, giusto? Il calcio non è così complicato».
Le differenze tra i calciatori:
«Ci sono tante differenze, tra i giocatori di varie nazionalità. Ad esempio, gli inglesi sono tremendamente professionali. Non gli interessa quello che fanno fuori dal campo, ma dentro il campo sono veramente precisi e forti. Tanto che, a volte, non riescono a comprendere come mai non si devono sempre allenare al 100%. Io penso che in allenamento a volte devi andare al 100%, ma a volte devi anche rallentare un po’. I giocatori inglesi non capiscono insomma l’allenamento “facile”. Completamente diverso dai francesi che invece capiscono davvero bene l’allenamento “facile”, mentre hanno più difficoltà nel capire quello duro. I giocatori italiani invece sono una via di mezzo tra inglesi e francesi».
L’esperienza alla Roma come punto di svolta da calciatore:
«A Parma non ci pensavo molto al diventare un professionista, perché comunque eravamo in Serie C e non era quel Parma fenomenale che sarebbe poi diventato in futuro. A ben vedere, ho cominciato a pensarci quando sono andato alla Roma, perché era una delle migliori società in Italia. Perciò a 20 anni ho cominciato a pensare come un calciatore professionista. A quel tempo l’allenatore giallorosso era Nils Liedholm. Mi portò a Roma, era davvero bravo a lavorare coi giovani. A Roma scoprii un mondo completamente nuovo, differente. Una città stupenda con tifosi veramente appassionati e legati alla squadra. Trascorsi otto anni in giallorosso. Due complicati, a causa di infortuni alle ginocchia e all’epoca recuperare da questo genere di infortuni era davvero molto, molto complesso. Ma fui comunque in grado di gestire questi problemi e uscirne ancora più forte».
Il passaggio da giocatore ad allenatore:
«Ho deciso di smettere di giocare quando ho voluto, senza rimpianti. Perché comunque cominciavo ad avere di nuovo problemi alle ginocchia. Anche se dal Milan sarei potuto passare ad altri club in Italia, ho deciso di smettere a 33 anni. Entrando subito in uno staff tecnico, visto che Arrigo Sacchi mi disse subito: “Quando smetti di giocare vieni con me, come assistente in Nazionale”. Ho colto subito quell’opportunità, nel 1992, quando mancavano due anni per prepararci al Mondiale 1994. E nel 1995 ho iniziato io stesso ad allenare. Il passaggio è stato davvero complicato. Da assistente hai poche responsabilità. Poi la difficoltà vera è quella di parlare ai giocatori, alle persone che stanno davanti a te, tutti i giorni nel cercare di tenerli sul pezzo, di essere chiaro nelle spiegazioni. Insomma, è completamente un altro lavoro quello tra assistente e allenatore».
L’infanzia in Emilia e l’approccio col calcio:
«È stata una buona vita, la mia infanzia è stata davvero bella e tranquilla perché nella mia famiglia c’era davvero un’ottima atmosfera. Nessun problema, davvero. Mio padre era un agricoltore, produceva formaggio perché ovviamente eravamo nella regione del Parmigiano Reggiano e lui si dedicava a ciò. Non c’erano soldi, devo ammetterlo, ma ho avuto un’ottima vita. A 15 anni ho lasciato casa per entrare nelle giovanili del Parma e contemporaneamente sono andato a studiare elettronica in un istituto cattolico, anche se non sono affatto diventato un buon elettricista. Fu un periodo molto duro, per quattro anni vedevo la mia famiglia solo la domenica, ma mi ha dato ottime lezioni, insegnandomi a essere indipendente. Fu difficile per mia mamma lasciarmi andare, ma io amavo già tanto il calcio e volevo seguire la mia passione. Ho avuto il supporto di mio padre che era tifoso della Fiorentina».











