Dialogo tra il Ciuccio e l’Aquila: «La Lazio è come una giornata d’inverno a Roma. C’è il sole, ma fa freddo»

Sono cadute le foglie ingiallite lungo i vialetti che portano al bosco di castagni. “Qui non c’è la cartolina di Napoli, qui c’è una Napoli inattesa”, mi dice l’Aquila al parco dei Camaldoli, il punto più alto della città. “Qui fa il nido il falco pellegrino”. Ci tiene a farmelo sapere. Il mare, da quassù, […]

Sono cadute le foglie ingiallite lungo i vialetti che portano al bosco di castagni. “Qui non c’è la cartolina di Napoli, qui c’è una Napoli inattesa”, mi dice l’Aquila al parco dei Camaldoli, il punto più alto della città. “Qui fa il nido il falco pellegrino”. Ci tiene a farmelo sapere. Il mare, da quassù, neanche si vede. È il mio quinto incontro con i simboli delle squadre avversarie e ce ne stiamo entrambi a guardarci l’un l’altro con un’aria mezza intronata, io dai tre gol della Juve e lei dalla foto di Totti. Erano anni che non correvamo per lo stesso traguardo, il terzo posto, onestamente il massimo che oggi possiamo permetterci. Da questa inattesa convergenza nasce il nostro dialogo sulla maniera di intendere il calcio.

Aquila: “E non ne traggo auspici favorevoli, credimi. Napoli è il posto dove abbiamo perso uno scudetto all’ultima giornata. Sapessi l’amarezza che provo quando penso che molti non conoscono certe storie, sono calati nella contemporaneità, nelle piccole beghe e ignorano i momenti più romantici del nostro calcio italiano. Ma tu sei vecchio come me, tu te lo ricordi il 20 maggio del ’73. C’eravamo arrivati con il Milan a 44 punti, noi e la Juve a 43. Programma: Verona-Milan, Roma-Juventus, Napoli-Lazio. Alla fine del primo tempo sentiamo che il Milan sta perdendo 3-0 a Verona e che la Roma è in vantaggio. Qualcuno dei nostri, nell’intervallo, avvicina i calciatori del Napoli più rappresentativi e gli chiede, come si dice oggi, di scansarsi. Il via libera allo scudetto. La risposta è glaciale: siete arrivati tardi. Il Napoli giocò per farci perdere lo scudetto, anche per ripicca dopo la partita dell’andata che era finita 3-0 per noi e con tante polemiche. Con il pari già saremmo stati tagliati fuori perché la Juventus rimontò, Damiani fece di più e ci segnò a un minuto dalla fine. Lo scudetto però lo vincemmo l’anno dopo”.

Ciuccio: “L’anno in cui al San Paolo Chinaglia segna 3 gol in un Napoli-Lazio 3-3, gioca con la maglia a brandelli e poi esce dal campo facendo le corna al settore Distinti. Come no, ricordo tutto benissimo. Però sei ingenerosa verso Napoli. In fondo vi abbiamo portato bene nel 1987: noi vincevamo lo scudetto e voi, partiti da -9 in serie B, vi siete salvati dalla retrocessione in serie C agli spareggi, superando proprio al San Paolo il Taranto e il Campobasso”.

Aquila: “Vero. Ma Napoli quella volta era solo scenografia. Non stavamo incrociando i nostri passi. Diverso per esempio dall’aprile del ’90, quando non riuscimmo a far fallire la vostra festa scudetto al San Paolo, segnò Baroni, te lo ricordi, e ed è differente anche oggi.  Temevo che il secondo tempo del derby potesse aver sgonfiato la nostra consapevolezza di restare in alto fino alla fine, ma la partita di Coppa Italia a Torino mi ha rasserenato. Ma non è di questo che tu vuoi parlare”.

Ciuccio: “Ho sempre pensato che nelle città in cui esistono due squadre di calcio, si finiscano per smarrire parte delle energie per una supremazia urbana che fatico a comprendere, lo ammetto, probabilmente solo perché non mi appartiene. È un dispendio di vigore che non voglio dire tribale, ma comunale sì, da medioevo. È vero che non vivendo questa situazione non posso capirla, ma anche negli anni ’80 non mi sono mai immaginato di poter baccagliare tutto l’anno con i tifosi del Campania Ponticelli. I tifosi del Campania erano innanzitutto tifosi del Napoli, e poi del Campania. Roma, più di Milano, Torino e Genova, mi dà l’impressione che tolga qualcosa con questa rivalità cittadina alle sue due squadre. Mi sbaglio?”.

Aquila: “Vedi, io posso parlare solo della mia parte, ed è la parte che ha portato il pallone nella città. Dire che siamo la prima squadra della capitale non significa rivendicare un primato sterile. Eppure, a dirla tutta, quando lo facciamo, io sento che stiamo venendo meno alla nostra natura che è fatta di sobrietà  e misura. Le nostre sono giornate che se ne vanno con una sensazione di solitudine, sono giornate spese dentro una trincea a difendersi da qualcosa, un nemico invisibile, sono giornate in cui ci sente terribilmente nudi nel raccontare all’esterno l’orgoglio della propria lazialità, fatta di pochi scudetti o poche Coppe. Esistono un mucchio di semplificazioni facili a proposito del tifo per la Lazio: divisioni per censo, per ideologia politica, per posizione geografica all’interno della regione e del grande raccordo anulare. In verità ti dico che essere della Lazio forse significa essere della Lazio e niente altro. Non c’è una sovrastruttura. Significa rappresentare se stessi e basta, quella maglia, quell’emozione che vive durante una partita, quell’unione che fuori da un campo di calcio diventa molecolare, se mi passi il termine. Intendo dire che probabilmente non c’è un laziale uguale a un altro, siamo molto diversi tra noi nei vari aspetti della vita, se non in questo sentimento di difesa di una cittadella sempre assediata”.

Ciuccio: “Fino a vivere, almeno a me così pare, una sorta di complesso d’inferiorità verso l’altra parte del calcio cittadino. Eppure, a guardare bene le vostre storie parallele, è quasi sempre un successo della Lazio a stimolare la Roma a crescere, quasi mai il contrario. Quando la Roma vince lo scudetto di Liedholm, voi siete in B e non è certo il momento migliore per fare proselitismo tra i tifosi di domani. Quando invece voi vincete con Cragnotti, costringete l’anno dopo Sensi a prendere Batistuta, Emerson e Samuel. Quando vincete la Coppa Italia nella finale derby, quello del gol di Lulic, obbligate la Roma americana ad accelerare il processo di crescita per cancellare una partita vissuta come una vergogna”. 

Aquila: “Non devi sorprenderti. È tutta la nostra storia a vivere di paradossi. Un paradosso è ritrovarsi la sfrontatezza di Chinaglia come icona del nostro naturale understatement. Non c’è stato calciatore italiano più ribaldo di lui. Il dito puntato alla Curva Sud, le corna al San Paolo, il vaffanculo a Valcareggi. Non dimenticare che siamo negli anni ’70, oggi ti accorgi di quanto fosse un calciatore modernissimo nell’esternazione dei suoi umori. Ma nella lazialità e nei personaggi che si sono succeduti vivono insieme il dramma e la commedia, i poeti e i mascalzoni, la follia e la delusione. Siamo diventati laziali da bambini e non siamo mai scesi da un’altalena. Il nostro è un patrimonio identitario che ci vota all’eleganza, alla raffinatezza, il perfetto laziale è Tommaso Maestrelli, eppure ci siamo legati sentimentalmente a persone che ci hanno tradito. Guarda che cosa è Nedved oggi. Quasi non ricorda neppure di essere stato dei nostri. Era juventino dentro. E Di Canio? Quello che disse: “Meglio essere un gagliardetto della Juve che una bandiera della Lazio”. Boksic si tirò indietro una volta a Perugia perché la maglia gli andava troppo stretta. Eriksson non ci poteva credere. Signori ci ha esaltato e poi non ci ha creduto, si è perso il meglio. La trincea è casa nostra”. 

Ciuccio
: “A questo proposito, visto che fai questo accenno, devo toccare una corda che potrebbe darti fastidio, ma non sarebbe giusto se non approfondissi”.

Aquila: “Ma sì, ma in fondo il discorso l’ho introdotto io stessa. E le risposte la trovi già in quello che ti ho detto. Tu vuoi parlare del calcioscomesse, delle bancarotte, dei capitani in galera, della squadra delle pistole. Tu vuoi domandarmi come sia possibile che io voli regale e fiera sopra le teste di un popolo che è dentro questa storia”.

Ciuccio
: “Un popolo, lasciami aggiungere, che viene accostato spesso all’ideologia fascista, all’antisemitismo. Tu stessa sei un simbolo fortemente caratterizzato”.

Aquila: “A un laziale pare che si possa sempre dire di tutto. È proprio questa la ghettizzazione della lazialità di cui ti parlavo in precedenza. Una minoranza impunita ha creato un pregiudizio. Non nascondo il problema, ci sono stati episodi molto gravi, ma insisto sul fatto che non tutti siamo uguali. La Lazio è nata prima di Mussolini, io stessa ne sono il simbolo prima che diventassi emblema di altro. La Lazio non ha cantori né aedi. Si alimenta della sua tormentata passione. Mangia se stessa. A volte si divora. La Lazio è la squadra dei lutti atroci: da Maestrelli a Re Cecconi, a Paparelli. La Lazio sperimenta come pochi altri mondi la sofferenza e come nessun altro però conosce l’arte del ritorno, della resurrezione. D’altra parte c’era il nostro presidente dell’epoca, Fortunato Ballerini, a sorreggere sul traguardo della maratona Dorando Pietri. Alessandro Piperno, lo scrittore, ha detto una frase che fotografa la maniera di sentirsi laziali, soprattutto la sola maniera di poter vivere la nostra passione calcistica in questa città spaccata. “L’orgoglio ha senso solo se coltivato privatamente. Se lo ostenti diventa triviale e insincero. Del resto, i veri libertini non vanno in giro a raccontare le loro scopate”. Vedi, Ciuccio, un laziale si riconosce dalle sfumature. La Lazio è come una giornata d’inverno a Roma. C’è il sole, ma fa freddo”. 
Il Ciuccio

(bibliografia per gli spunti: Mario Pennacchia, “Lazio patria nostra”;  Franco Recanatesi, “Le ore della gloria”; Stefano Ciavatta: “#vola”)

Gli altri dialoghi

Con il Diavolo (Milan):  https://www.ilnapolista.it/2014/12/ciuccio-diavolo-milan-napoli/

Con Aida (Parma): https://www.ilnapolista.it/2014/12/parma-napoli-aida-ciuccio/

Con il Cavalluccio Marino (Cesena): https://www.ilnapolista.it/2015/01/cesena-napoli-dialogo-ciuccio-cavalluccio-marino-napolista/

Con la Zebra (Juventus): https://www.ilnapolista.it/2015/01/dialogo-zebra-ciuccio/

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