Napoli-Roma, dialogo tra il Ciuccio e la Lupa: «Dobbiamo ricominciare ad abbracciarci, speriamo che non ci veda nessuno»

Non me l’aspettavo. Mi chiama e mi dice: “Devo vederti”. Non succede da tanto, sicuramente anni, non mi sono messo mai a contarli, non l’ho fatto adesso che l’attesa è finita. “Noi due dobbiamo parlare”, sento dire al telefono dalla Lupa. Non c’era neppure un motivo per dirle di no, anzi, penso a quanto tempo […]

Non me l’aspettavo. Mi chiama e mi dice: “Devo vederti”. Non succede da tanto, sicuramente anni, non mi sono messo mai a contarli, non l’ho fatto adesso che l’attesa è finita. “Noi due dobbiamo parlare”, sento dire al telefono dalla Lupa. Non c’era neppure un motivo per dirle di no, anzi, penso a quanto tempo è passato senza aver trovato un motivo per vedersi. Sono contento che sia stata lei a chiamare e sono pentito di non averci pensato io. Forse avremmo dovuto farlo prima, forse sarebbe servito a qualcosa. Perché io sono ancora così ingenuo da credere nel potere della parola, dell’incontro, degli sguardi, delle mani che si tendono e che poi si stringono. Sono così ingenuo da credere che questo nostro appuntamento possa servire a portare la pace.

Ci vediamo a Capodimonte, al bosco. “Così mi sento a casa” scherza mentre passeggiamo. Non dovete aspettarvi che la Lupa parli in romanesco. Lo conosce, ovviamente. Saprebbe parlarlo. Ma non lo fa. Non con me, non ora, non qui. Una volta, quando ancora ci si frequentava, la sera si usciva insieme e allo stadio si guardava la partita uno accanto all’altra, mi confessò che non ne poteva più di questo stupro continuo alla lingua sua, di questo romanesco afflitto dal tempo e dai cliché, così radicalmente cambiato rispetto ai giorni del Belli, Trilussa, Pascarella. Un romanesco annacquato, imposto all’Italia e alla sua città “dar cinema” e dalla televisione. “Per protesta contro questa gente, io non lo parlo più”, mi disse, ma ne era addolorata. Era bello starsene a chiacchierare con la Lupa, a parlare apertamente di noi, del suo amore per la mia città e del mio per la sua. Forse sono tempi che non torneranno più, forse adesso possiamo solo ambire a stare rintanati qui nel bosco, clandestini, a ricordare.

Non c’è tanto da girarci intorno. “Io non ce l’ho con te” mi dice. È questo il suo saluto. Le parole con cui mi accoglie. “E i preliminari?”, le chiedo per prenderla un po’ in giro. “I preliminari dopo”, mi risponde con uno di quei paradossi che sono il cuore dell’ironia romana, e di cui la Lupa è la regina. Ha gli occhi neri come il cuoio, labbra carnose, il seno ancora vigoroso, alta, magra, ma è pallida come non ricordo di averla vista mai. Pare la Lupa di Verga. Quando passa, ci si fa il segno della croce. Perché se quella ti poteva portar via il marito, questa ti può portar via i tre punti.  

Lupa: “So che dici così soltanto per scaramanzia, non ti credo, e soprattutto non ci credi tu. Sei sicuro della vostra superiorità, aspetti solo di vederla trasformata in supremazia. Ma non parli mai dei tuoi desideri, con me non lo hai mai fatto in modo aperto. Li trattieni fra i denti, serri le labbra. Non hai paura di me, della Lupa, della Roma. Hai paura d’altro, di qualcosa che non sapresti neppure nominare, il cielo, il destino, il fato, gli dei, la loro invidia, hai paura dell’eterno, di cosa verrà, di quel che può venire. È la storia della tua Napoli, in fondo. Il terrore di aprire le finestre e di far entrare l’aria. Sempre rinchiusi dentro una stanza, meglio ancora se nella stanza si sente l’odore del caffè”.

Ciuccio: “Guarda che il ricorso alla superstizione è un gioco. Credo che nessuno di noi immagini che abbia davvero un senso. Facciamo ricorso alla superstizione non solo perché siamo consapevoli di non avere certezze, ma perché siamo sicuri che non le abbia nessuno. Perché negarsi allora l’aiuto dell’irrazionalità? Perché escludere dalla partita tutti gli elementi su cui non esercitiamo controllo, in assenza di un’alternativa razionale? Voi a Roma, lo so, altre volte ce lo siamo detti, state al mondo con un atteggiamento opposto. La vanteria non ve la negate. Se c’è da spargere al vento la convinzione di essere i più forti, non vi sottraete. Ma esattamente come noi nel nostro opposto, alla vanteria non ci credete. Non è paura di aprire le finestre all’aria. È un sentimento di debolezza, sicuri come siamo di essere esposti al peggio. Lo diceva Tolstoj: nessuno è più superstizioso degli scettici. Ma se fosse per me, ti direi che l’unica cosa che porta male è trovarsi con un gol in meno degli avversari al 90°”.

Lupa: “Io non ce l’ho con te, così come so che tu non ce l’hai con me. Io credo che le cose ci siano sfuggite di mano, in uno stadio e fuori, nel calcio e nella vita di ogni giorno. Eravamo simboli, e questo non è più il nostro tempo. Se sono passate di moda le ideologie, figurati noi, le bandiere, il senso di appartenenza, cose antiche, superate. Siamo condannati a essere ininfluenti. Ma una cosa non ti perdono. Quando senti un coro in uno stadio contro la tua parte, non devi commettere l’errore di credere che dall’altra parte, ci sia una fazione intera che si sente rappresentata da quell’atto. Non è Roma a essere contro Napoli. La mia città è piena di voi, si è arricchita con la vostra presenza. Attori, registi, romanzieri vivono ogni giorno nelle nostre strade, nei nostri palazzi, prendono i nostri autobus, senza alcun cenno di ostilità verso di loro. Un figlio della tua città ha vinto l’Oscar mettendo in scena la grande bellezza della mia. Abbiamo perso il controllo della normalità e dei sentimenti dentro uno stadio”.

Ciuccio: “Quello che dici è vero, vorrei dire che è quasi scontato. Mi chiedo però quale sia il contesto sociale, nazionale, in cui tutto questo avviene. Non posso fare a meno di notare il modo in cui Napoli viene letta e raccontata, in modo ormai univoco, un modo che scatena un odio che per forza deve essere diffuso, diffuso ma represso nella realtà di ogni giorno. Succede finanche nella colta e dotta Bologna, dove probabilmente da un po’ di tempo hanno cominciato a individuare i napoletani come persone che tolgono loro qualcosa, quotidianamente, non so darmi un’altra spiegazione”.

Lupa: “Il problema sai qual è? Che noi cerchiamo spiegazioni secondo le nostre logiche. Noi stessi, qui, stiamo facendo ragionamenti secondo i quali cerchiamo assonanze e dissonanze fra noi, mentre la divisione vera non è tra me e te, ma tra noi, intesi come noi due e loro, intesi come quelli per cui il calcio è un pretesto, uno strumento attraverso il quale inseguire una rivendicazione, un palcoscenico, un riscatto. Siamo circondati da persone che hanno compreso di non poter essere protagonisti delle loro vite se non attraverso questi gesti, estremi, drammatici”.

Ciuccio: “Non lo so ci devo pensare. Non riesco ancora a maturare un pensiero ricco sui motivi che ci hanno allontanato, su cosa è successo dai giorni del gemellaggio fino alla terribile notte di Ciro. Non so neppure cosa possiamo fare per provare a tornare indietro”.

Lupa: “Temo nulla, Ciuccio. Nulla per loro, per questa gente che semina parole d’odio e gesti violenti. Possiamo provare a starne fuori, a tagliare i ponti, a bruciare la terra alle nostre spalle e ad andare avanti. Dobbiamo soltanto ricominciare a coltivare i nostri rapporti, fra gente che sente di non avere nulla da spartire con questa faida. Ecco, noi dobbiamo ricominciare ad abbracciarci”.

Ciuccio: “Tu dici?”.
Lupa: “Io dico”.
Ciuccio: “E allora abbracciamoci. Ma speriamo che non ci veda nessuno”.
Lupa: “Sì, hai detto bene: speriamo che non segni Higuain”.
Ciuccio: “Io ho detto un’altra cosa”.
Lupa: “Io ho capito Higuain. Per me vale questo. Finisce tre a uno per noi, lo sai?”.
Ciuccio: “Ecco qua, la solita Lupa”.
Lupa: “Perché: secondo te come finisce?”.
Ciuccio: “E’ l’anno vostro”.
Lupa: “Il solito Ciuccio”.
Il Ciuccio

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