È un problema culturale. Per gli uomini è più facile, parlano di “sacrificio” ma dietro hanno una schiera di donne sottopagate che gli facilitano il lavoro

Siamo ben lontani dal vivere in un mondo in cui le donne possono ritagliarsi nello sport, e nel calcio, lo stesso spazio degli uomini. È un problema culturale radicato nella società. Jonathan Liew sul Guardian fa l’esempio di Emma Hayes, allenatrice del Chelsea femminile che prima di accettare il ruolo di ct della nazionale femminile statunitense, ha chiesto il permesso al figlio.
“Emma Hayes, lo scorso autunno, era indecisa se lasciare il Chelsea e accettare la maglia della nazionale americana, ha chiesto consiglio a suo figlio Harry, prima di andare a dormire. «Andiamo negli Stati Uniti, mamma!», è stata la risposta, un momento che in seguito Hayes ha descritto come ‘l’approvazione’ di cui aveva bisogno”.
Liew ironizza, perché bisogna accettare che “un’intera era del calcio femminile moderno possa oscillare in base al verdetto di un bambino assonnato di cinque anni“. Un’opzione che il giornalista non ritiene tanto assurda, “se si considerano alcune delle decisioni che gli adulti hanno preso per il bene del gioco negli ultimi anni, è difficile pensare che i bambini avrebbero potuto fare peggio“.
Le donne che lavorano nel calcio convivono con il senso di colpa genitoriale
Liew poi fa l’esempio di chi invece ha deciso di lasciare il lavoro. “È con un certo rammarico che il calcio inglese dice addio – per ora – all’allenatrice dell’Aston Villa, Carla Ward. Non licenziata, ma semplicemente logorata. Logorata dall’interminabile pendolarismo da Sheffield, dalle lunghe ore di viaggio, dalle feste mancate e dalle serate con i genitori, da quel particolarissimo senso di colpa dei genitori di cercare di mantenere una carriera e un figlio allo stesso tempo, e sentire che nessuno dei due sta avendo la meglio su di te“.
Queste sono situazioni che con gli uomini non si verificano. “Curiosamente – e la mia casella di posta è sempre aperta – riesco a trovare pochissimi allenatori uomini che si sono trovati in una situazione simile. E ciò succede pur essendo la stragrande maggioranza degli allenatori maschi genitori, presumibilmente non meno devoti alla prole, che presumibilmente lavorano altrettanto duramente secondo un programma altrettanto spietato”.
Gli uomini parlano di sacrificio, ma il loro lavoro è facilitato da un esercito femminile sottopagato
E allora perché esiste questa differenza? Ce lo spiega bene Liew: “Qui c’è sempre stato uno squilibrio fondamentale: guidato non solo dai livelli di supporto materiale e strutturale, ma da fattori culturali radicati che sono spesso specifici del calcio. Dopotutto, il calcio maschile è sempre stato gestito da un esercito silenzioso e invisibile di manodopera femminile sottopagata e spesso non retribuita: mogli, fidanzate, tate, personale dell’asilo nido e membri della famiglia allargata che fanno funzionare lo spettacolo, facendo da babysitter durante le trasferte, somministrando biberon alle 3 del mattino in modo che il padre possa dormire per riprendersi“.
In questo modo gli allenatori non sentono lo stesso peso della famiglia che sentono le donne, “le tensioni e le esigenze della genitorialità, le sofferenze nel trovare un’assistenza all’infanzia adeguata, semplicemente non esistono. La famiglia è sempre e solo rappresentata come un’aggiunta al lavoro. Quando un calciatore o un allenatore parla di “sacrificio”, si tratta invariabilmente di un sacrificio che lui stesso ha fatto e per il quale sarà applaudito, anche quando il suo peso ricade direttamente sulle donne della sua vita”.