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La forza del calcio ce l’ha spiegata Jep Gambardella

El Paìs descrive i tifosi come devoti all’ignoranza, Pasolini parla di rappresentazione sacra che resiste (a differenza della messa). Il pallone non muore mai

La forza del calcio ce l’ha spiegata Jep Gambardella

«A Bobby Charlton facce na pippa!»

L’Italia non aveva mai battuto l’Inghilterra in una partita di calcio. Nemmeno nel 1971. Quando Dino Risi immaginò l’integerrimo giudice Ugo Tognazzi condannare (ingiustamente) l’insopportabile Vittorio Gassman, disonesto capitano d’industria. Il finale di “In nome del popolo italiano”, coi tifosi che si riversano sguaiatamente per strada è un cult. Oltre lo stesso film che lo contiene. Basta cercare su YouTube. Persino in anticipo di due anni su Wembley, Fabio Capello e proposopee d’antan sparse. Oggi, a vederlo distaccatamente, sembra pensato dal giornalista Daniel Verdù. Che su “El Paìs” ha descritto i tifosi quali “devoti all’ignoranza”. Con riferimento ai supporter “blaugrana”. Quelli del Barcellona, insomma. Trattano malissimo la loro squadra abituata a stravincere. Pure in questa stagione che li vede attuali campioni di Spagna, secondi in classifica, con ennesima vista sulle semifinali di Champions League.

L’argomentato pensiero sottolinea “la confusione controculturale in tempi di intelligenza artificiale e big data”. Il giornalista, così arguto, probabilmente conoscerà almeno di fama Pier Paolo Pasolini. Proprio il Poeta in un’intervista all’Europeo del 1970 (sempre in quel periodo lì) sosteneva un celebre assunto: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci».

Parole che molti conoscono a memoria, ormai. Riportate un’infinità di volte ai tempi della rete. Quasi a giustificare atteggiamenti isterici e infantili di appassionati-ultras. Da gente che, diciamolo, nella realtà nemmeno saprebbe fare un palleggio. Ma, in fondo, che importa? Chissà perché, poi, il ragionier Fantozzi vuole sapere a tutti i costi “chi ha fatto palo”? “La corazzata Potëmkin” di Ėjzenštejn sarà probabilmente un “mattone”. Assai difficile da sostenere. Specialmente in un cineforum aziendale per non cinefili. Però, il fanatismo adolescenziale, sedimentato negli uomini adulti, rimane un mistero abbastanza incomprensibile. Il pallone resta, dunque, un’occasione sprecata. Tramanda vizi e pessimi retaggi. Addirittura ancestrali. Complottismi, mancanza assoluta di fair play, egoismi, sfottò volgari al limite del consentito, omofobie, razzismi, incomprensibili antipatie, autarchie monodirezionali, campanilismi beceri, cattivissimi esempi, contraddistinguono ancora adesso nel 2024 tutti (o quasi) gli stadi del mondo.

Eppure la “passione” non diminuisce mica? Tutt’altro. Senza esclusione alcuna o limiti anagrafici di sorta coinvolge ogni ambito sociale. Al pari della religione qualsiasi “adepto” sente di avere la verità in tasca. La sua, ovviamente. Manco avesse avuto la fortuna di stare dalla parte giusta per intercessione divina. “Grazie mamma che m’hai fatto romanista, napoletano, juventino, interista, milanista, palermitano, cagliaritano, bergamasco…”. Niente, è già patetico leggerlo. Figuriamoci scriverlo. Giusto su una bancarella sopra una pezza a buon mercato assumono un senso puttanate del genere.

Allora, è pacifico. Se vince Luciano Spalletti siamo di fronte a un Dio. Se perde deve andarsene assieme alla Panda che gli hanno fregato. Lapalisse (al secolo, Jacques de La Palice) che non allenava confermerebbe ugualmente. Allegri e Mourinho “bolliti” nonostante il palmares, si sa. Pioli è “on fire” o “out”, a seconda dei risultati. E i giornali sportivi caccia(va)no Simone Inzaghi prossimo allo Scudetto perché sbaglia le sostituzioni.

In una storia premio Oscar dello scorso decennio, c’è un regista (tifosissimo) che tra le righe una soluzione ce la “spaccia”. Per bocca di Jep Gambardella che, forse, diventa Tony Pagoda: «Conosciamo le nostre menzogne, ma proprio per questo finiamo per parlare di vacuità, di sciocchezzuole, di pettegolezzi. Proprio perché non abbiamo nessuna intenzione di misurarci con le nostre meschinità». Dovremmo guardarci con affetto. «Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro…».

E magari capire, dopo tantissimo tempo, che Bobby Moore non è poi questo gran figlio di mignotta. Solo perché è inglese.

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