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Boateng e il razzismo: «In 11 anni non è cambiato niente, la partita a porte chiuse non spaventa i razzisti»

Al Corsera il calciatore che uscì dal campo nel 2013: «Serve il 3-0 a tavolino e che ad alzare la voce non siano solo i calciatori neri»

Boateng e il razzismo: «In 11 anni non è cambiato niente, la partita a porte chiuse non spaventa i razzisti»
Db Busto Arsizio (Va) 03/01/2013 - amichevole / Pro Patria-Milan / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Kevin Prince Boateng lascia il campo, partita sospesa per cori razzisti

Boateng e il razzismo: «Serve il 3-0 a tavolino, una partita a porte chiuse non spaventa i razzisti». Lo dice in un’intervista al Corriere della Sera.

«Sembra che rispetto a undici anni fa non un solo passo sia stato fatto nella lotta al razzismo. È una vergogna, uno prova a svolgere il proprio lavoro e nel 2024 ancora è obbligato a sentire certe offese. Capisco Maignan che si ribella ed esce dal campo».

Kevin Prince Boateng è stato l’esempio da cui il portiere ha tratto ispirazione: il centrocampista nel coro di un’amichevole nel 2013 a Busto Arsizio, dopo i buu dei tifosi della Pro Patria, calciò il pallone in curva e se ne andò. Le immagini fecereo il giro del mondo e il Boa fu invitato al palazzo dell’Onu.

«Tenni anche un discorso, ma se allora ero emozionato, perché mi trovavo là per una brutta esperienza, ora sono orgoglioso di poter contribuire al cambiamento».

Boateng: «Sto lavorando con il presidente Infantino a un progetto per aiutare i giocatori nel risolvere problemi mentali, tra cui la depressione, gli attacchi di panico e la sofferenza causata da episodi razzisti».

Cosa si può fare per vincere la battaglia?

«Ora solo i giocatori di colore alzano la voce. Invece abbiamo bisogno di bianchi, asiatici, arabi».

Il bando a vita comminato dall’Udinese al tifoso è una misura sufficiente?

«No. Per scoraggiare certi atteggiamenti a mio avviso subito dopo il primo richiamo dagli altoparlanti si dovrebbe infliggere la sconfitta per 3-0 a tavolino».

Il giudice sportivo ha comminato una giornata a porte chiuse. Pena severa?

«Non è una sanzione che spaventa i razzisti».

Boateng denunciò la ritrosia dei calciatori a impegnarsi contro il razzismo

Il Corriere della Sera intervista Kevin-Prince Boateng, ex di Milan, Sassuolo, Fiorentina e Monza, oggi in forze all’Hertha Berlino. Figlio di padre ghanese e mamma tedesca è da sempre impegnato nella lotta al razzismo. Racconta di esserne ancora vittima.

«Ancora oggi, a Berlino, cammino per strada e c’è chi cambia marciapiede».

Come va la task force per fare eventi contro il razzismo, annunciata nel 2019?

«Pensavo fosse più facile trovare calciatori, cantanti, attori che avessero voglia di metterci la faccia e lottare. Invece, è difficile trovare uno che c’è al cento per cento. Hanno contratti, sponsor, paura di perdere qualcosa. Non te lo dicono, ma lo capisci».

Il punto è esporsi per cambiare le regole del calcio?

«Abbiamo telecamere per vedere se la palla va in porta, se sputo a terra o sull’arbitro, ma non possiamo controllare che urlano i tifosi. Perché è strano solo per me?».

Commenta il fatto che da un recente report dell’Associazione Calciatori risulta che negli ultimi campionati gli insulti via social sono aumentati.

«È vero. Perché lì puoi nascondere la faccia. Se perdo, ricevo messaggi, tipo: scimmia di m… Io rispondo sempre, perché le ingiustizie non vanno sopportate».

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