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«Agnelli era affascinato dai comunisti. Ho sempre pensato che cercasse una morte violenta»

Jas Gawronski sul Corriere: «Li considerava spietati. Scendeva negli spogliatoi Juve, Trapattoni ne era infastidito. Detestava i finali, nel calcio come nella vita»

«Agnelli era affascinato dai comunisti. Ho sempre pensato che cercasse una morte violenta»
1985 archivio Storico Image Sport / Juventus / Giovanni Agnelli / foto Aic/Image Sport

Per il Corriere della Sera ampia intervista di Aldo Cazzullo a Jas Gawronski giornalista e amico di una vita di Gianni Agnelli. L’intervista è tutta su Agnelli.

Jas Gawronski, quando vide Gianni Agnelli per la prima volta?

«Avevo vent’anni, era il 1957. Mi invitò a un party a Sestriere, con molta altra gente. Lo incuriosiva che vivessi in Polonia».

Perché?

«Era affascinato dai comunisti. Li riteneva uomini di un’altra categoria: spietati. Ed era interessato alla durezza della vita, alla sofferenza delle persone».

Quali politici stimava l’Avvocato?

«Era affascinato da Pannella. Volle conoscerlo. In lui non vedeva l’esibizionismo, ma la buona fede».

E i democristiani?

«Non ne parlava certo bene. In generale non aveva una buona opinione dei politici. E neppure dei giornalisti. Anche se frequentava quelli di successo: insieme andammo alla festa per i novant’anni di Montanelli».

E i comunisti?

«Li stimava di più, aveva un ottimo rapporto con Lama. Una volta invitò a cena Castro. Dovevo esserci anch’io; ma Fidel arrivò con il suo assistente, Robaina, futuro ministro degli Esteri; per non essere in tredici a tavola, l’Avvocato mi pregò di venire dopo il dessert».

Ferrari o Juve?

«La Ferrari lo appassionava perché era sua; la Juve era un vero amore. Nell’intervallo scendeva negli spogliatoi: Trapattoni era un po’ seccato, ma non lo dava a vedere. Si divertiva a punzecchiare Boniperti, a ricordargli che si era lasciato sfuggire Maradona. Adorava Platini e Boniek, che trovava molto spiritoso. Mi raccontò che l’ingaggio prevedeva una parte in nero: Boniek la prese e se la infilò nei pantaloni, proprio lì…».

Le pare possibile?

«Di recente ho visto Boniek qui a Roma, e gliel’ho chiesto. In polacco, per lasciarlo libero di rispondere senza che nessuno, oltre a me, capisse. Mi ha assicurato di no, che era uno scherzo dell’Avvocato».

È vero che amava il pericolo?

«Sì. Ricordo un atterraggio nella nebbia in elicottero. Il pilota disse: non so se riusciremo. L’Avvocato ordinò di provare lo stesso. Oppure si faceva portare sulla sua barca, l’F100, dove cento sta per i piedi: 30 metri, non certo i megayacht di oggi; ma si poteva atterrare l’elicottero, con il mare calmo».

E con il mare agitato?

«Il pilota planava, noi ci spogliavamo e ci gettavamo in acqua. Il vero pericolo lo corse su un’altra barca, lo Stealth: sbagliò manovra, finì su uno scoglio, il timone che teneva sino a un attimo prima saltò in aria, per poco non lo trapassò. Visse l’incidente come uno smacco, perché era un ottimo velista: una volta a Bonifacio entrò a vela in una gola che tutti percorrono a motore, tra gli applausi dei presenti… Ho sempre avuto l’impressione che l’Avvocato cercasse una morte violenta, improvvisa».

Invece ha avuto una malattia lenta e dolorosa.

«Dolorosa non credo, o comunque non se ne lamentava. E poi non sapeva di dover morire».

Come fu il vostro addio?

«Non ci fu nessun addio, e mi sarei sorpreso del contrario».

Come? Lei era il suo migliore amico.

«Ma lui non era un sentimentale. E poi detestava i finali. Anche allo stadio andava via sempre prima della fine del match. Ha fatto così anche con la vita».

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