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Giannini: «Ho vissuto a Napoli. Non sono napoletano, ma è come se lo fossi»

A La Repubblica: «Recitare mi ha insegnato ad educare il corpo e la voce. Sali sul palco e ti cachi sotto, non devi mai farlo vedere. Alla Wertmuller devo tutto». 

Giannini: «Ho vissuto a Napoli. Non sono napoletano, ma è come se lo fossi»

La Repubblica intervista Giancarlo Giannini. Nella serie Sky in otto episodi “Il grande gioco”, di Fabio Resinaro e Nico Marzano, prodotta da Eliseo Entertainment, interpreta Dino De Gregorio, storico procuratore del calciomercato alle prese con la demenza senile.

«Ha un nome complicato, la demenza a corpi di Lewy, a momenti è lucido, in altri non controlla il corpo. Da attore è stata la cosa più complessa. Anche se vista l’età non è stato così difficile… Per il resto, di calcio non so nulla».

Giannini racconta a chi si è ispirato per interpretare il ruolo.

«A Milano da Giannino, ristorante frequentato da calciatori e procuratori, oltre che da Silvio Berlusconi, una sera ho parlato con un paio di loro. Gli ho detto che non capisco nulla di quello che fanno. Mi hanno risposto: neanche noi capiamo molto. Allora ho inventato. Per me Il grande gioco è soprattutto una tragedia familiare».

A febbraio Giannini sarà a Los Angeles per la cerimonia della stella sulla Walk of fame.

«Ho avuto una nomination all’Oscar per Pasqualino sette bellezze, Lina Wertmuller era un genio, le devo tutto. La stella è un Oscar per sempre: per tutti i film, non per uno».

In Italia pochi riconoscimenti?

«Una volta ho detto che a Venezia non mi hanno mai dato neanche un gatto nero, ha fatto scalpore. Ma è la verità. Se mi chiede il perché, non lo so. Mi sembra di aver fatto qualcosa nella vita. Un ministro — non dico chi — una volta mi ha proposto di fare il direttore della Mostra, ma faccio l’attore, non scelgo i film. Però ho detto chi lo doveva fare».

Cosa guarda in tv?

«Guardo soprattutto i documentari sugli animali. Ci vuole pazienza, devi riprendere chi si nasconde. Come quello che succede sul set».

Entrare e uscire dai personaggi è un’idiozia? Giannini risponde:

«Certo. Ma dove entri, dove esci? Devi fingere, è la cosa più bella. Io l’ho sempre fatto e funziona. In inglese recitare si dice to play e in francese jouer, giochiamo. Non diventi il personaggio. Ogni film è un lavoro della fantasia e dell’intelligenza. Il mio maestro Orazio Costa diceva che l’attore è come un’arancia. Per Jean Louis Barrault, il più grande mimo e interprete francese che ha fatto Les enfants du paradis “è colui che col suo movimento incide uno spazio e con la voce un silenzio”».

Recitare non era nel suo destino. Giannini è un perito elettronico. Racconta che doveva andare in Brasile per fare il
ricercatore, all’epoca nascevano i primi satelliti. Invece Mario Ciampi lo scoprì, a Napoli.

«Vivevo a Napoli, non sono napoletano ma è come se lo fossi. Mario Ciampi, impiegato innamorato del teatro, che ha inventato molti attori, mi disse: “Ti preparo io”. Per me l’Accademia era quella militare di Modena. Partii per Roma, c’erano 900 aspiranti alla prova di ammissione per l’Accademia di arte drammatica. Fui l’ultimo dell’ultimo giorno».

Teatro, cinema, tv, doppiaggio: che ha capito di sé recitando?

«Tante cose. A educare il corpo e la voce. Sali sul palco e ti cachi sotto, non devi mai farlo vedere. Capisci un attore quando entra in scena».

Ha compiuto da poco 80 anni, che rapporto ha con l’età? Giannini risponde:

«Non ho paura della morte, mi incuriosisce ma vorrei vivere 700 anni per leggere quello che mi interessa. L’età invece mi dà fastidio, arrivano gli acciacchi. Non voglio sapere l’età di nessuno, neanche la mia. Dico: sono del 1942 fate i calcoli».

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