A Sportweek: «Devono capire che tutto va conquistato e meritato. A Udine all’inizio è stata dura. Qui si cena alle otto, da noi a quell’ora si fa merenda».

Sportweek intervista Roberto Maximiliano Pereyra, capitano dell’Udinese. E’ nato il 7 gennaio del ’91 a San Miguel de Tucuman. Cresciuto calcisticamente nel Cadetes prima e nel River Plate poi, ha esordito con il River nel 2009, a 18 anni. Nel 2011 è passato all’Udinese, dove è rimasto 3 anni prima di trasferirsi alla Juve. Con i bianconeri Pereira è stato dal 2014 al 2016, vincendo 2 scudetti, 2 Coppe Italia e una Supercoppa italiana. Poi Watford e, dal 2020, ancora Udinese. In Serie A ha giocato 200 partite segnando 21 gol.
Racconta che all’inizio era molto timido e non amava molto le intervista. Soprattutto, non gli piace parlare prima delle partite. Ma nemmeno dopo, soprattutto quando si perde.
«Prima si dicono sempre le stesse cose. Dopo, se abbiamo perso, non apro bocca e torno subito a casa. Incazzato nero».
Sul ruolo da capitano:
«Lo ha deciso la società. Per me significa tanto, è un premio dopo tutto quello che ho sofferto. Sono andato via dall’Argentina a 15 anni, ho lasciato famiglia e amici. Indosso questa fascia con orgoglio, rispetto e ambizione, quella di migliorare me stesso ogni giorno e portare più in alto la squadra e un club cresciuto tanto, in immagine e strutture, a partire dallo stadio».
Pereyra viene da San Miguel de Tucuman: racconta le sue origini.
«È una città del nord dell’Argentina, una delle più piccole, con solo un milione e mezzo di abitanti. C’è tanta povertà: più del 50 per cento della popolazione vive in miseria o quasi. Oggi io aiuto ogni volta che se ne presenta l’opportunità: se mi chiamano gli amici o la Caritas, ci sono. Si soffre parecchio quando vivi a San Miguel, ma anche quando, come nel mio caso, te ne vai. Però, andarmene mi ha permesso di vedere la vita in un’altra maniera e maturare più in fretta».
E come la vedi, oggi, la vita?
«È tutto diverso da quando ero là. Non ci sono paragoni. Oggi posso comprare quello che desidero. Ma ai miei due bambini, Maxi Junior che ha 7 anni e Baltazar che ne ha 3, cerco di insegnare già adesso il valore delle cose. Loro possono chiedermi quello che vogliono, e io sono quasi sempre in grado di esaudirne i desideri, ma devono iniziare a capire che tutto va conquistato e meritato. Per me è stato così, e ogni conquista mi è costata fatica e a volte dolore. I miei figli sono più fortunati, ma anche la fortuna va meritata».
Racconta la sua famiglia.
«Vengo da una famiglia povera. Mio padre Leonidas cercava lavoro ogni giorno: una volta gli dicevano sì, un’altra no. Una volta lavorava cinque ore in un posto, due giorni dopo nello stesso posto non lo facevano entrare. Così girava e girava finché è entrato in un’azienda che esporta limoni in tutta l’Argentina. Lui li metteva nelle scatole. Mamma invece faceva pulizie nelle case, ma ha smesso quando ha avuto me e i miei fratelli, un maschio e una femmina. Io da ragazzino cercavo di dare una mano perché il “grano” era poco, ma a modo mio. Facevo delle piccole cazzate. Prendevo dei limoni e li vendevo per conto mio, prendevo il rame dai cavi e andavo a venderlo. Una volta bruciai cinque o sette metri di cavo che serviva a mio padre, per prendere il rame che conteneva. Papà impazzì. Mi rincorse per tutta San Miguel».
Pereyra parla dell’adattamento a Udine.
«All’inizio è stata dura. Non conoscevo la lingua e il modo di vivere era totalmente diverso da quello cui ero abituato. A Udine dopo le dieci di sera è tutto chiuso. Non trovi più un locale che ti fa mangiare. Qui alle otto la gente si siede a cena, da noi alle otto di sera si fa merenda. Piano piano ho iniziato ad adattarmi. Oggi abito a Godia, un quartiere a dieci minuti dallo stadio, dove ho degli amici anche fuori dal campo. Qui sto benissimo, la qualità della vita è altissima e Udine è un posto perfetto dove crescere i figli».
Dalla Juve andò via che aveva ancora tre anni di contratto. Una scelta che in passato ha definito una follia. Spiega perché decise di andar via.
«Me lo chiedo anch’io. Gli agenti che avevo allora mi hanno spinto ad andare via e io mi sono fidato. Diciamo che non mi hanno consigliato per il meglio. A Torino, fuori dal campo, ho fatto qualche cazzata: l’aperitivo in più, la serata tirata fino a tardi… Ma il primo anno sono andato fortissimo e il secondo, se non ho reso allo stesso modo, è stato a causa degli infortuni, non perché uscissi a cena. Quello lo facevo pure prima».
Come ti spieghi le difficoltà della Juve di oggi?
«Penso che manchi un po’ di unione. Mi pare che ognuno vada per conto suo. Nella mia Juve c’erano Pirlo, Tevez, Buffon, Chiellini… tutta gente che, se tocchi uno, tocchi tutti. E non vedo molto feeling tra Allegri e la squadra, come invece era ai miei tempi».
Tucu, sei un calciatore forte: se ti guardi indietro, ti accorgi di aver raccolto meno di quanto meritassi? E per colpa
tua o di altri?
«Potevo fare di più. La colpa me la prendo io, perché parlo poco e ascolto tanto, ma alla fine sono io che decido. Con la testa che ho oggi, sarei ancora alla Juve».