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Oscar Schmidt: «La Nba mi offese, ero 131esima scelta. Maggiò scoprì che stavo andando a Madrid»

Intervista al Paìs. Il cestista brasiliano è entrato nella Hall of Fame. «Il segreto dei miei tiri? L’allenamento. Nel basket non ci sono segreti»

Oscar Schmidt: «La Nba mi offese, ero 131esima scelta. Maggiò scoprì che stavo andando a Madrid»

Oscar Schmidt. Anzi Óscar Schmidt Becerra. Uno dei più grandi tiratori della storia del basket. Ha segnato 49.737 punti in partite ufficiali. Brasiliano idolo di Caserta (anche se lo scudetto lo vinsero quando lui se ne andò). Soprannominato la mano santa. Oggi Oscar Schmidt ha 64 anni ed è entrato nella Hall of Fame del Basket pur senza aver mai giocato in Nba. Ha avuto un tumore al cervello. El Paìs lo ha intervistato.

Racconta tante cose, innanzitutto perché non ha mai giocato in Nba.

Perché mi offesero. Fui preso come 131esima scelta dai Nets nel 1984. Nel sesto turno del draft. Io 131esimo? Per loro non esisteva il basket giocato al di fuori degli Stati Uniti. Questa è l’unica ragione per cui mi sono detto che avrei loro dimostrato che si sbagliavano. Sono andato alla preseason e ho sbottato all’allenatore: “Coach, un minuto, un punto. Se mi dai 20 minuti a partita, ti do 20 punti. Se me ne dai più di 30, potrei farne 60”. I ragazzi americani mi guardavano sbigottiti, non ci credevano. Ed è quello che è successo. Abbiamo giocato cinque partite contro i rookie delle altre squadre, ho avuto 25 minuti e ho segnato 25 punti. Sono impazziti! “Dobbiamo ingaggiare quel ragazzo” dissero. Mi hanno offerto un contratto, ma ho rifiutato. La mia vita era già buona. Ha giocato in Italia e nella nazionale brasiliana. Perché avrei dovuto rischiare di rimanere in panchina? Non mi interessava. E c’era anche una regola della Federazione internazionale che proibiva di giocare con la tua squadra nazionale se eri nell’Nba. Per questo non sono andato. Certo che avrei fatto bene.

Tra le sue vittorie ce n’è una che ricorda in particolare.

La più grande vittoria della mia generazione, il Torneo panamericano del 1987 che abbiamo vinto in finale contro gli Stati Uniti a Indianapolis [120-115]. Tutti in Brasile ricordano quel torneo, ci hanno fatto anche un fumetto. Gli Stati Uniti avevano una grande squadra,  meglio di molte squadre professionistiche. Non pensavamo di poterli battere. Feci 46 punti.

Il segreto del tuo tiro?

Allenamento. Non c’è segreto nel basket. Sono un prodotto dell’allenamento. Quando finivo ogni sessione, rimanevo a fare 500 tiri da tre. Se c’era una doppia sessione, allora ne facevo mille. Un giorno, mentre giocavo in Italia, ho pensato che era troppo facile e mi sono detto che non sarei tornato a casa se non avessi segnato 20 canestri di fila senza sbagliare. Di solito ci riuscivo al terzo tentativo. Quando sono arrivato a 20, ho continuato ad andare per vedere fin dove potevo arrivare. Sai quanti ne ho fatti? 90 da tre senza sbagliare.

I giovani si allenano allo stesso modo oggi?

No, a loro non piace allenarsi perché è pesante. È noioso tirare così tante volte. A me non ha mai pesato.

Ha giocato a Valladolid.

Pensavo che avrei giocato con Sabonis, ma lui andò a Madrid. Riesci a immaginare cosa avremmo fatto io e Sabonis insieme? Avremmo potuto vincere tutto, anche se avremmo avuto bisogno di due palloni. Faceva freddo a Valladolid.

Perché non hai firmato per il Real Madrid?

Ho a casa un contratto firmato da Ramón Mendoza per tre anni. Stavo giocando a Caserta e il proprietario (Maggiò, ndr) mi chiese: “Cos’è questa storia del Real Madrid?”. Non so come facesse a saperlo, perché non l’ho detto a nessuno. Potrebbe essere  sfuggito a Lolo Sainz. Ho risposto al proprietario che avevo un contratto firmato con Madrid. “Quanti anni hai?”. Tre. “Te ne do quattro.”E sono rimasto. Avrei potuto giocare con Petrovic. Nella finale della Coppa delle Coppe 89 con Madrid ci ha segnato 62 punti [vittoria del Real per 117-113, con 44 punti di Schmidt]. Oh, mio dio. Non ho mai visto nessuno segnare più di 40.

La malattia

Non mi sono mai lamentato di essere malato. Sono un fervente cattolico e il Papa mi ha messo la mano sulla testa. Fu allora che pensai di essere guarito. Ho continuato la terapia fino a gennaio di quest’anno e ora sono come una macchina.

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