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L’ego degli allenatori ha stufato. La ritualità mediatica del calcio va ripensata

Si lamentano, piangono, si azzuffano, non ammettono mai i loro errori. Si credono guru, sono bamboccioni. La rissa Tuchel-Conte è solo l’ultimo esempio

L’ego degli allenatori ha stufato. La ritualità mediatica del calcio va ripensata

La rissa da bar tra Tuchel e Conte è solo l’ultimo di una lunga serie di deprecabili esempi. Due bulletti della scuola che a fine partita fanno i galli su una questione fondamentale: guardarsi o meno negli occhi quando ci si stringe la mano. Non molto distanti dai tragici titoli che ci capita di tanto in tanto di leggere: “accoltellato per uno sguardo in discoteca”.

Ma, attenti, non state per leggere un pezzo moralista. State per leggere un articolo contro il divismo degli allenatori. La ritualità mediatica del calcio ha architettato per loro il ruolo di prim’attori. Godono di una ribalta mediatica del tutto sproporzionata e tutto ciò ha avuto l’effetto anabolizzante sui loro ego. “La vanità è l’oppiaceo più naturale” diceva Al Pacino ne “L’avvocato del diavolo”. Siamo vanità.

Gli allenatori di calcio vengono trattati alla stregua di filosofi del pensiero contemporaneo. Alcuni sono trasformati in guru, sono i nuovi Che Guevara: indicano la via. Il calcio non crisi di ideologie.

Sono loro i principali protagonisti mediatici di ogni partita. Parlano prima. Parlano dopo. In campo si agitano e strepitano come se giocassero loro. Al fondo, raramente dicono qualcosa di interessante. Se non fossero adulti, li definiremmo bamboccioni. Sono spesso strapagati. E anche quelli pagati “poco” comunque portano a casa quasi stipendi tra i 600mila euro e il milione. Eppure quasi sempre si lamentano. Di tutto. Raramente (potremmo dire mai) ammettono loro errori. L’ammissione di un errore da parte di un allenatore equivale a quelle persone che alla domanda “Dimmi un tuo difetto?” rispondono: “sono troppo sincero” o “sono troppo generoso”.

Sono suscettibili e permalosi come nemmeno gli attori e i cantanti. Ci viene in mente Alfredo Cerruti – lui sì un filosofo del Novecento – quando disse: “Gli Squallor sono nati proprio come valvola di sfogo perché i cantanti sono i più grandi scassacazzi della storia”. Non aveva conosciuto gli allenatori.

Non è mai colpa loro. Mai. O è degli arbitri, o è dei giornalisti (che si fanno trattare come pezza da piedi) o è del club ossia dei loro datori di lavoro. Gli allenatori sono tra i pochissimi al mondo che possono serenamente strapazzare (diremmo noi “impunemente fare una merda”) i loro superiori. Più lo fanno, più sono apprezzati dai tifosi.

Se restiamo a casa nostra, non può non suonare grottesca la conferenza stampa di sabato di Mourinho che alle domande sul mercato romanista (uno dei migliori della Serie A) ha risposto che solo Lecce e Sampdoria hanno speso meno della Roma. Sarri ha avuto gioco facile nel metterlo ko dialetticamente (vedete? I protagonisti sono sempre loro). Simone Inzaghi ha cominciato a piangere ancor prima che cominciasse il campionato e ha continuato a farlo dopo che la sua Inter ha battuto il Lecce all’ultimo minuto. Vorremmo dirgli: “amico mio, ringrazia che sei all’Inter. Ti venderanno Skriniar e tu starai zitto, sei pagato anche per stare zitto”.

Un fuoriclasse in materia di lacrime è senza dubbio Antonio Conte che ha trattato la dirigenza nerazzurra come se fossero un covo di bugiardi e impostori, quasi lestofanti. Salvo intascare stipendi da urlo cui nel suo caso va aggiunta anche la liquidazione record. Perché l’allenatore quando il castello crolla, va via. Altrimenti gli si rovina la reputazione.

Il sistema mediatico è tale che se un allenatore non attacca il proprio datore di lavoro, diventa aziendalista. Ossia – stretto stretto – uno che si è venduto per soldi, che non racconta la verità ai giornalisti e quindi ai tifosi. Spalletti è certamente un esempio.

Gli allenatori vengono trattati alla stregua di alchimisti o leader politici. Parlano di calcio come se stessero esponendo una dottrina politica o spiegando una Finanziaria fondamentale per il Paese. Sono sempre più numerosi i tecnici che diffondono il “loro” calcio, che spiegano una partita come se fosse un modo di stare al mondo, di interpretare la vita. Se ai datori di lavoro sta bene, ok, altrimenti ci esonerassero e ovviamente ci pagassero lo stipendio fino a che contratto non ci separi.

Questo sistema mediatico ha generato mostri. Ha creato divi che naturalmente si comportano come tali. Ci ha fatto dimenticare che i protagonisti restano comunque quei signori che scendono in campo con scarpette e pantaloncini. Vivaddio il ritorno alla polemica del calcio da strada con Neynnar che fa i dispetti a Mbappé per calciare un rigore. Il calcio è questo. O almeno è certamente più questo rispetto a pillole di presunta filosofia regalate da persone che nella vita hanno il compito di indicare schemi di calcio cui i giocatori dovrebbero più o meno attenersi.

Persone intelligenti ce ne sono, come ad esempio Klopp che è uno di quelli con la percentuale più bassa di castronerie dette davanti a un microfono. Ma sono rarissimi gli esempi di antidivi: paradossalmente il più sobrio è quello che ha vinto di più. Succede sempre così. Sarà un caso ma quando l’allenatore fa un passo indietro (Ancelotti, in parte Klopp, era così Ranieri, Boskov, pensiamo a Low ma anche a Pioli, tanti altri ce ne sono), si trova anche il modo di elogiare l’arte dei calciatori: ricordiamo, ad esempio, l’assist di esterno di Modric, le parate di Courtois, gli spunti velenosi di Salah, l’anno da record di Vardy.

Gli allenatori si sentono sempre più protagonisti perché come tali vengono trattati e considerati dal sistema mediatico che ormai è costruito attorno a loro. A stento conosciamo la voce di Mbappé, così come quella di Lukaku (o di Osimhen per rimanere in terra napolista). Invece quelle degli allenatori le conosciamo perfettamente. E dobbiamo sorbirceli prima durante e dopo. La rissa Tuchel-Conte è una diretta conseguenza di questa sovraesposizione. Al termine di una partita bellissima, i protagonisti sono stati loro due, peraltro per una scena miserabile. È bastata una stretta di mano da braccio di ferro per far dimenticare i novanta e passa minuti di poesia calcistica.

Monopolizzano la narrazione pallonara e francamente non se ne può più. È giunto il momento, a nostro avviso, di ripensare la ritualità mediatica del calcio. Di sottrarre visibilità a loro e di darne ad altri, soprattutto a chi gioca. Forse, in futuro, spunterà anche un presidente che avrà il coraggio di rivoluzionare la struttura tecnica delle squadre, magari con più allenatori – chessò uno per la fase offensiva e uno per la difensiva – e magari un terzo che va in panchina la domenica. Bisogna riportare il calcio e i calciatori al centro del villaggio. L’ego degli allenatori ha ben poco di interessante. Non sono guru. Non indicano alcuna via. E molto spesso, soprattutto ultimamente, hanno ampiamente sconfinato il senso del ridicolo.

Ci torna in mente una frase di Corrado Ferlaino: “l’allenatore miglior è quello che fa meno danni”. Ha vinto due scudetti, uno con in panchina Albertino Bigon. Quelli che contavano, stavano in campo.

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