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Tananai: «Ero obeso e alle medie mi chiamavano ciccione. Nulla rispetto ai tweet di Sanremo»

Al CorSera: «Quando sono dimagrito e ho iniziato a piacere alle ragazzine, pensavo mi prendessero in giro. Dopo il Festival tutti mi cercano».

Tananai: «Ero obeso e alle medie mi chiamavano ciccione. Nulla rispetto ai tweet di Sanremo»

Il Corriere della Sera intervista Alberto Cotta Ramusino, in arte Tananai. Quest’anno ha partecipato al Festival di Sanremo arrivando ultimo, ma ora sta scalando le classifiche. Si parte dal nome d’arte: Tananai è una parola che si usa al nord e che significa «gran confusione e schiamazzo di gente che ciarla e grida». Viene spesso usata per indicare dei bambini vivaci.

«Mi chiamava così, non ero uno tranquillo».

Si racconta:

«Nato a Milano l’8 maggio 1995 e cresciuto a Cologno Monzese. Fino a che non ho avuto il motorino, la metropoli sembrava distante. Vita di periferia tranquilla, senza problemi. Al massimo qualche “ciccione” e qualche spintone quando ero un ragazzino obeso. Non direi bullismo, nulla rispetto ai tweet di Sanremo. Alle medie ero 1 metro e 50 per 82 chili. Adesso 1 e 82 per 76. Ho anche saltato qualche mese di scuola per non farmi vedere: ero pure in carrozzina per un problema a un ginocchio. Ho iniziato a mangiare bene, gli ormoni mi hanno fatto crescere e in terza, quando ho iniziato a piacere alle ragazzine, pensavo mi prendessero in giro».

Sulla sua carriera:

«Il primo contratto è arrivato come produttore di musica elettronica sperimentale col progetto Not for Us. Ero troppo saccente: pensavo che solo la musica complessa potesse essere valida. Ho messo un macigno su quell’esperienza ed è nato Tananai quando una vocal coach mi ha detto che avevo una bella voce».

A Sanremo, come detto sopra, è arrivato ultimo.

«Mi sono incazzato. Non per le critiche, ma con me stesso. Pensavo di aver bruciato un’occasione. Dopo la prima serata ero felice che fosse uscita la voce. All’università mi veniva la lingua felpata a parlare in pubblico… Invece quella notte mi sono svegliato, ho preso il cellulare e ho visto il diluvio di critiche. Ho pensato “all’Italia non piaci”. Il giorno dopo il ritorno a casa: mi chiama il mio manager e mi dice che tutti mi vogliono».

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