Tra chi non versa una lacrima e chi vive un lutto identitario c’è la terza via: chi se l’è goduto come calciatore, per nove anni pieni di bellezza
In Italia, non solo a Napoli, abbiamo un problema coi saluti. Siamo gente che saluta sempre, come i serial killer educatissimi col vicinato interrogato dopo una strage al tg. Li intendiamo come un addio, anche quando è provvisorio: a Natale “ci dobbiamo vedere” per salutarci prima che sia troppo tardi e venga Capodanno (il trauma della fine del mondo incombente, i Maya…); e tocca “berci una cosa assieme” pure in attesa della villeggiatura, possibile crepa delle nostre esistenze: hai visto mai che finisci squagliato in fila 23, sullo spiaggione di Praia a Mare. Figurarsi come stiamo vivendo male il distacco da Dries Mertens, dopo 9 anni e centinaia di gol per il Napoli. Fa peraltro caldissimo, e la rivoluzione giovane e un po’ apolide di De Laurentiis la accostiamo a questa sensazione sgradevole di magliette azzeccate addosso e malodori sottascellari. Ma è un tranello.
C’è chi non versa una lacrima nemmeno metaforica per Mertens. E c’è chi invece invoca giri di campo, partite speciali, la disperazione dello stadio, gli “speravo de morì prima” che sono diventati la nuova grammatica del distacco. In mezzo ci siamo noi, che Mertens abbiamo amato tecnicamente con un trasporto a-sentimentale. Gente arida che s’emozionava per il pallonetto al Torino, per le botte all’incrocio, per i guizzi alla Romario. Per il campo, la partita, i gol. Non per il nomignolo, non per il figlio nato direttamente sui social, non per le affacciate a Posillipo. Non per la pretesa aderenza ad una napoletanità che respingiamo per imperativo antropologico, tantomeno per “l’identità” d’un uomo simpatico o antipatico o chissenefrega.
In queste ore – visto che il Napoli l’ha liberato ufficialmente con un video celebrativo su Twitter – Mertens è vittima di se stesso. E’ finito in quella centrifuga populista che ritiene un’offesa la fine di una tappa di vita e di carriera, per molti procurata dalla “vil moneta”. Sono gli stessi, per capirci, che si sono offesi quando in tv l’altra sera Concita De Gregorio ha detto «a volte Draghi assume questo tono da titolare di cattedra a Harvard che è finito in un alberghiero di Massa Lubrense». La reazione del sindaco di Massa Lubrense che invita De Gregorio ad andare a mangiare lì per poi pentirsi, evidentemente convinto che Harvard sia una mensa, traduce la deriva di cui parliamo meglio di tante analisi arzigogolate (“Se solo a Boston sapessero fare il dottorato in scienze politiche al sangue come lo spadellate voi”, lo ha giustamente sfottuto Guia Soncini).
Per noi Mertens merita un ulteriore tributo perché non è stato Insigne, e non Koulibaly. E non è stato un cittadino, ma un giocatore. Uno strepitoso giocatore di pallone. Ce lo siamo goduti ogni minuto che gli allenatori gli hanno concesso, e che lui ha strappato con una insana determinazione che altrove diventerebbe romanzo, e che qui resta ancora un felice incidente, un caso fortuito, una piega dritta del caos partenopeo.
Ala, mezzapunta, centravanti. Benitez, Sarri, Ancelotti, Gattuso, Spalletti. E’ arrivato a superare i 30 anni in un “falso” ruolo. Centravanti chiuso col lucchetto in una matrioska concentrata di preconcetti. Liberato infine da una mossa disperata di Sarri, che lo schierò punta per un’emergenza. Mertens è stato la soluzione improbabile a mille problemi. Di più, ha descritto il percorso che avrebbe potuto seguire anche Insigne: abbandonare la zona di comfort, prendersi in carico la responsabilità di un ruolo ambizioso, aggiungendo complessità ai suoi movimenti, allargando il suo gioco in tre dimensioni. Con un’intensità fisica e mentale impressionante, è cresciuto nel corso degli anni. Un frullatore in orizzontale e verticale, che giocava di prima per dare ritmo al palleggio, poi attaccava la profondità dietro i difensori, e fare assist geniali. E i gol dal nulla, sbucando dal prato come nella gag di Aldo Giovanni e Giacomo, quella della partitella in spiaggia.
Mertens ha segnato gol iconici e pesantissimi. Ha fatto gol al Real Madrid, al Liverpool, al Benfica, al Psg, al Barcellona. Abbiamo già una volta fatto un giochetto, lo riprendiamo: sceglierne tre dal suo catalogo, per tenerlo lì bene a mente adesso che se ne va. Nella sua essenza di giocatore, tralasciando il resto di cui ci importa zero.
Il primo NON è il gol al Torino. E’ il gol del 2-1 al Genoa il 24 ottobre 2017, a Marassi. Perché rappresenta Mertens in purezza, nella sua versione bomber alla Romario. Uno stop e tiro con due tocchi in meno di un secondo, e palla nel sette del primo palo quasi dalla linea di fondo, sulla testa del portiere in uscita.
Il secondo NON è il gol al Torino. Ma il motivo della scelta è lo stesso: Maradona. Il gol del momentaneo 1-3 all’Olimpico contro la Lazio il 20 settembre del 2017. Pallonetto di destro alla cieca, schiena alla porta dopo uscita larga di Strakosha, quasi dalla linea laterale. Terribilmente simile a quello che il Pibe segnò il il 24 febbraio 1985, proprio alla Lazio, con Nando Orsi in porta.
Il terzo gol… sì, è il gol al Torino. Famigerato. Il quarto di quattro gol segnati il 18 dicembre 2016. Il gol più pretenzioso e folle della sua carriera. Il gol dell’istinto e dell’incantesimo: riceve palla spalle alla porta, in posizione laterale, è fuori equilibrio, con l’intera linea difensiva davanti a lui in area. Calcia sotto con un lieve effetto di collo-interno. Un gol di una bellezza brutale: non ha importanza dove sia, contro chi, in che modo… bisogna segnare, e se per farlo tocca inventarsi una parabola impossibile, beh, basta renderla possibile.
Salutiamo Mertens così, senza dolore o prostrazione. Senza l’ansia del Natale incombente o delle ferie d’agosto. Ha fabbricato un sacco di nostri ricordi, quasi tutti belli. Con le mani, con la testa, con il petto, con le gambe, e pure con il culo: ciao ciao.