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Panatta: «Lo confesso, mi ha colpito Bertolucci che ha detto: “Adriano è il fratello che non ho avuto”»

Una lunga intervista a Sette. «Non è che non mi allenassi, io ero fatto così. Mi fanno schifo gli urli di oggi, così come la canotta non si può guardare»

Panatta: «Lo confesso, mi ha colpito Bertolucci che ha detto: “Adriano è il fratello che non ho avuto”»

Sette fa una lunghissima intervista ad Adriano Panatta, a firma Sandro Veronesi. Ne riportiamo un estratto.

La prima cosa che Veronesi chiede a Panatta è questa: il tennis fino agli Anni 60 era uno sport d’élite, lo giocavano i bon vivants, le persone ricche, Pietrangeli. Poi arriva Panatta, il figlio di un custode, Bertolucci, il figlio di un maestro, Barazzutti, il figlio di un vigile, e Zugarelli, diciamo, un ragazzo di strada. E vincono la Coppa Davis. Il tennis in Italia diventa uno sport popolare. C’era un po’ di orgoglio sociale, diciamo così, nelle vittorie? L’orgoglio del figlio del custode che espugna uno sport un po’ classista?

«No, onestamente no. Non ho mai avuto voglia di rivincite sociali, perché non conosco l’invidia. Anche quando ero piccolino e abitavo dentro al Tennis Parioli e vedevo questi che arrivavano con le automobili, non ho mai avuto invidia, perché ero un bambino molto felice. E poi io al Parioli ci sono stato fino ai 9 anni, e non frequentavo il circolo. Stavo nella mia casa dietro il circolo, che era recintata. Avevo il mio muro dove giocavo a tennis tutto il giorno. Non giocavo con i soci, non mi ricordo di aver mai giocato con i soci».

La serie tv “Una squadra”.

«Questo sicuramente, perché oltretutto molta gente non ci conosceva. Ci conosceva magari per i risultati sportivi, ma non è che conoscessero le persone. Invece da tutte queste interviste è uscito il lato straordinariamente umano e malinconico di Zugarelli. È uscita una vena ironica di Barazzutti, e la sua bella proprietà di linguaggio. L’ironia di Paolo nei miei confronti, la mia nei confronti un po’ di tutti. È uscita anche la personalità di Pietrangeli. È venuto fuori tutto ciò che eravamo davvero».

È venuta fuori la profondità dell’amicizia tra te e Bertolucci, confessata nella sua interezza dentro la serie.

«Sì, e posso dirti una cosa? Quando lui dice “Io ho avuto due sorelle e il fratello che non ho avuto è Adriano”, io sono rimasto molto colpito».

Anch’io, perché si sentiva che era una cosa vera.

«Anche se non l’ho detto, mi ha colpito molto. Non glielo dirò mai, ma lo dico a te».

Se Panatta ci è rimasto male a essersi fermato al numero 4.

«Non vorrei sembrare cinico però no, non me ne frega niente. La cosa di cui sono orgoglioso, ti dico la verità, è che nel ’76 secondo me io sono stato il numero 1 al mondo sulla terra battuta, che è la superficie dove sono cresciuto. Aver dimostrato questo per me è più che sufficiente. Mi hanno sempre accusato che non mi allenavo abbastanza, ma non è vero. Anzi, non è che non sia vero, è proprio posta male la questione, perché se uno è qualcosa non può essere anche un’altra cosa. Io sono quella cosa lì, quello che si vedeva, io che vincevo e anche io che perdevo».

Prima si stava zitti, si giocava vestiti di bianco, nessuno vociava, nessuno diceva “a-chi”. Ora ci sono queste urla da energumeni
che quasi non si sente nemmeno la chiamata dell’arbitro?

«Mi fa schifo. Mi fa schifo, sul serio. Mi fa schifo».

Bisognerebbe vietarlo.

«Il fatto è che lo fanno in tanti, per cui la Wta e l’Atp la concedono».

Anche le canotte: Nadal, prima. Adesso Zverev.

«La canotta non si può guardare. Va bene per il basket, va bene per la pallavolo, ma nel tennis la canotta non si può guardare».

Come è cambiata la Coppa Davis.

«Era la cosa più importante. Tutto si fermava se uno giocava la Coppa Davis. Io nel ’76 non ho giocato il Master. Dimmi tu, se oggi vinci uno Slam e un 1000, più il resto, al Masters ci vai no?».

Di corsa.

«Be’, io non ci andai, per fare la Coppa Davis. Si andava ad ambientarsi in India se si doveva giocare in India, oppure in Sudafrica, e ci si stava un mese, pensa, un mese. Immagina oggi dire a chiunque “Stai fermo un mese per giocare la Coppa Davis”. Questo ti risponde “Ma sei scemo?”. Però allora era così. Poi a un certo punto alcuni giocatori tipo Connors hanno cominciato a non giocare la Coppa Davis perché non la sentivano come la sentivamo noi. Uno che la coppa Davis l’ha sempre giocata è stato McEnroe. Mac alla Davis non ci rinunciava, ma era un fatto di cultura».

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