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Mertens non è stato oleografia, è stato la nostra bella giornata

Il calcio ha una dimensione sentimentale, lo sanno bene Mou e la Roma che ha riacceso l’entusiasmo senza per questo essere populista

Mertens non è stato oleografia, è stato la nostra bella giornata

Sono tempi strani per il Napoli. Per la prima volta, dopo anni, questa passione appare a molti, anche a chi non ha in particolare antipatia l’antipatico De Laurentiis, come una faccenda triste, non per i risultati, che magari non sono del tutto esaltanti – quest’anno, dicono tutti, lo scudetto era alla nostra portata – ma sono, per un altro verso, oggettivamente e difficilmente contestabili, per una società che non ha le possibilità di altre realtà.

I tifosi spesso additano ADL per i mancati investimenti, in realtà però il problema, riconducibile in parte ad ADL e in parte al cosiddetto “ambiente”, è un altro. Il Napoli oggi non ha narrazione. Che non vuol dire comunicazione: quella ce ne è a iosa e confonde, nasconde, è quasi sempre disonesta.

Cerco di spiegarmi meglio. Il Napoli di Mazzarri, con Cavani e Lavezzi, aveva un suo quid, una sua idea forte, così come quello dell’utopia di Benitez o di Sarri. Anche il Napoli dell’arrivo di Ancelotti aveva un senso. Chissà, forse se si fosse andati avanti con lui, magari con Ibra…

In ogni caso, oggi il Napoli non offre grandi stimoli, non accende gli animi, in ciò procedendo di pari passo con la città, che ha molte importanti energie ma quotidianamente mortificate da un contesto politico e culturale ancora – forse più che mai – deprimente. Si, politica e cultura (elites e contorno di putribonda borghesia, compresa quella che permea ormai, sì, anche certi ambienti del tifo organizzato) a Napoli sono forze deprimenti, che uccidono ciò che di buono, faticosamente e forse confusamente, viene espresso dalla società. Ma non è un fatto nuovo. Chissà, per quanto riguarda il Napoli, figure trainanti come quella di Ibra (o come un Mourinho: per me il vero colpaccio della Roma, altro che Dybala!) avrebbero potuto produrre una svolta.

Di fatto, oggi ADL sguazza in tutto ciò. In passato il suo registro era di contrasto all’ambiente (eccessivo, fuori fuoco), ora mi pare sia immerso in questo andazzo, anzi ne sia, per quanto riguarda il calcio, un simbolo, l’espressione più compiuta, per mezzo di una comunicazione autolesionista, schizofrenica, sopra le righe, priva ora del carattere innovativo, “americano”, che aveva fino a qualche anno fa.

Senza contare altre vistose figurine non Panini, come smentire fragorosamente un allenatore (che aveva dichiarato Koulibaly incedibile) dopo pochi giorni (il problema non era tanto e solo la cessione del giocatore, inevitabile a meno che non lo si volesse dare gratis l’anno prossimo). Qui, sia chiaro, non si tratta di parteggiare per il tifo contro la società inadeguata oppure per l’imprenditore illuminato ma bizzarro contro l’appassionato populista e beota: ognuno ha le sue enormi responsabilità in questo graduale declino. Per esempio, non è per nulla scontato che se avessimo vinto la Conference ci saremmo eccitati come i romani. Ormai il pubblico, qui, ha una sua pretenziosità, sì, borghesuccia. Però, magari mi sbaglio, e sto anche io peccando di reductio ad unum e invece – mi ripeto – un uomo come Mou avrebbe resuscitato quel tifo bambino, verace, popolare, in-di-spen-sa-bi-le. Del resto, Napoli è una città del sud e del mediterraneo, ha bisogno dell’elemento personalistico (Maradona, dopo, in piccolo Cavani, Lavezzi, Sarri), e questo elemento carismatico, col capitano triste Insigne, i mister avvelenati e/o verbosi e il presidente istrione che ci siamo ritrovati, manca. Come il pane.

Vengo alla questione Mertens, cui molte righe sono state dedicate da Il Napolista e anche dal suo direttore in queste ore. Personalmente, al di là delle proiezioni di un certo tifo, non vedo nessuna oleografia in questo giocatore, non almeno nell’aver chiamato il figlio Ciro, nome che sta diventando desueto pure a Napoli, proprio come l’amore per un inno come ‘O surdato nnammurato, che il Napolista invocò giustamente come canto “identitario” allo stadio. E non credo vi sia stata neppure ruffianeria nella scelta della coppia, visto che quel nome il loro figlio se lo porterà a vita, ovunque andrà. Piuttosto, la “napoletanità” di Dries mi è sempre apparsa sempre ironica, scugnizza, leggera.

Nessun piagnisteo, anch’io credo che di Mertens si potesse (dovesse) fare a meno, chiudendo un ciclo che andava chiuso anche molto tempo prima. Magari qualche amarezza per il come (la solfa, quella sì populista, sul “vil denaro”). Il calcio ha una dimensione politica come una dimensione sentimentale, lo sanno bene a Roma sia Mou sia la niente affatto populista società che sta riaccendendo una narrazione attraente intorno alla squadra.

Piccola parentesi: si potrebbe fare anche con la coriacea squadretta che il Napoli sta allestendo in queste settimane.

Però, il richiamo di Massimiliano Gallo sulla dialettica elites-lazzari, che non esisterebbe più (con appiattimento delle prime sui secondi), mi pare anacronistico: a Napoli i lazzari non ci sono più da tempo, semmai il folclore oggi è di marca piccolo borghese, proprio come il suo presunto opposto, appiattito come è sulla fustigazione indignata del plebeo costume. Restare su questa contrapposizione, questa dicotomia tra le due Napoli, quando nella realtà ce ne sono molte più di due, è, sì, anacronistico.

Quanto a Maradona, pure citato da Massimiliano, lui sì che era un lazzaro, il Grande Lazzaro, in una città più cattiva, verace, certo meno oleografica, dove non c’era bisogno dell’identitarismo perché c’era l’identità, vissuta più che proclamata, che però faceva paura anche allora al buon borghese. Quello che ha apprezzato il documentario di Kapadia e ne ha condiviso lo sguardo moralistico, l’accento sulla camorra dietro ogni cosa si muovesse in città negli anni ‘80, compreso l’acquisto del  Pibe de oro, per non dire dei suoi vizi. Per quella Napoli, Diego era un drogato (“grande giocatore ma pessimo uomo”, quante volte l’abbiamo sentito!).

Mertens è stato un affare diverso. Molto diverso. Del resto, la città, il paese, il mondo sono cambiati profondamente. Ma sarebbe ingiusto ricordare solo gli ammutinati del Bounty e perfino ridurre tutto al numero dei gol. Il belga, con l’indolente e timido – troisiano – Hamsik (se Dries è Ciro, lui sarebbe stato un ottimo Gaetano, cit. Ricomincio da tre, ce lo si conceda), ha dato un volto diverso alla città, è stato l’alternativa vera a Gomorra, ha dimostrato che possiamo esser temuti/schifati/ammirati per un dribbling e un balletto con Starace, che lì c’è tutta l’essenza della nostra superiorità di pensiero, di visione, di ironia, a compensazione della inferiorità conclamata di potenza, di organizzazione e progetto. Mertens è stato questo e altre cose ancora. È stata la nostra “bella giornata” (La Capria), è stato Capri, Ischia, Posillipo e, of course, Palazzo Donn’Anna (anche se il professor Trombetti dice di no, dimenticando che è la città che sceglie i suoi simboli e pure i fantasmi da far abitare nella rovina del Fanzago), e poi patella e riccio, tracina e purpo e marvizzo. Ci ha detto di non disunirci prima di Sorrentino, anzi lo ha detto alla maniera di un protagonista di “Leoni al sole” del grande Vittorio Caprioli (ancora Dudù): “Guagliò ricordati che se crollo io, crollerai pure tu. Qua dobbiamo stare tutti uniti e incoraggiarci con i complimenti“. E in questo, anche se oggi pare un delitto (ché ci dobbiamo per forza fare una chiavica uno con l’altro), non ci vedo nulla di male e nessuna rinuncia a denunciare i demagoghi. Siamo dei maestri nel farci a pezzi da soli, un po’ di autoincoraggiamento (senza tracimare nell’autocompiacimento, che è altra cosa) – una ntecchia: un metro e 69 – non ha potuto farci che bene. Prima di iniziare, come è lecito e naturale, perfino vitale, un’altra storia.

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