ilNapolista

Ermal Meta: «Ho imparato l’italiano trascrivendo e traducendo le canzoni di Antonello Venditti»

A Specchio: «Ho vissuto la cauta del regime comunista in Albania, non volevo emigrare in Italia, scoprire le strade illuminate e i tanti canali tv».

Ermal Meta: «Ho imparato l’italiano trascrivendo e traducendo le canzoni di Antonello Venditti»

Specchio intervista Ermal Meta. Racconta la sua infanzia in Albania, nella città di Fier, l’educazione estremamente rigida che ricalcava la disciplina del comunismo di ferro del dittatore Enver Hoxha.

«La maestra di pianoforte mi tirava le bacchettate sulle mani. Era estremamente severa, mi sgridava per la postura e io mal digerivo questa rigidità militaresca. Per questo, dopo un anno, ho abbandonato la scuola russa di pianoforte, per quella stupida onnipotenza di un bambino ferito. Mia madre insegnava musica. Io non potevo ammettere di non essere all’altezza. E allora ho detto: non ci vado più».

Della dittatura ricorda poco. Hoxha morì che lui aveva cinque anni.

«Ma mi sono accorto quando quel sistema del terrore è crollato. Lì ho iniziato a unire i puntini: stavo vedendo e vivendo lo sfaldarsi di un ordine delle cose. Quando il regime è caduto, si sono verificati disordini: c’erano molti omicidi per strada in Albania, molte persone hanno confuso la democrazia e la libertà con il libertinaggio. Quando hanno aperto le carceri, insieme ai prigionieri politici sono usciti anche i rigurgiti della società. Per quattro anni si è vissuto nel caos e nella violenza, si è rimescolato l’humus sociale».

Quello che ha vissuto in qualche modo lo ha rafforzato.

«Il mio passato mi ha reso in qualche modo più pronto a qualsiasi cambiamento. Se ogni cosa del tuo mondo è repentina e brutale, in senso ampio, con passaggi epocali che ti sbattono come in un mare infuriato da un polo all’altro, cominci a sperimentare la violenza intesa come forza dell’esistenza. E devo essere sincero: non avevo granché voglia di emigrare in Italia, ma non per pregiudizio, sia chiaro. Ma perché, per un bambino piccolo, nell’arco di cinque anni non era semplice vedersi piovere addosso tre realtà completamente diverse. Dal comunismo, mi sono trovato a conoscere i “denti del mostro imperialista”, le strade illuminate, i tanti canali sulla tv, che erano tanti e non uno».

Che musica ascoltava all’epoca? Cantautorato italiano, musica albanese?

«Mi sono formato con grande avidità su una cassetta “tutti i frutti” di Antonello Venditti. Lo facevo per imparare la lingua, perché per inclinazione personale era impensabile sbagliare anche solo una parola. Volevo, appunto, essere perfetto. Conservo ancora i quaderni su cui segnavo i termini italiani che non conoscevo. Mi scrivevo i testi delle canzoni e li traducevo. Ho capito così il doppio linguaggio dentro la musica. “E non c’è sesso e non c’è amore, né tenerezza nel tuo cuore”: non capivo, quando ascoltavo, che le canzoni sottintendono messaggi».

ilnapolista © riproduzione riservata