Sul Domani gli atleti e l’abolizione del dolore fisico: oggi il vero top player dello sport è l’antidolorifico

I professionisti li usano ormai come fossero Smarties, con gravi danni alla salute. Altro che retorica dello sforzo supereroico e dell’abnegazione verso l’impegno agonistico

nadal

Parigi (Francia) 05/06/2022 - finale Roland Garros / Nadal-Ruud / foto Imago/Image Sport nella foto: Rafael Nadal ONLY ITALY

Sul Domani un lungo articolo dedicato all’uso, anzi, all’abuso, di antidolorifici nello sport. Il titolo è eloquente: l’antidolorifico è diventato il vero top player dello sport.

Ormai gli atleti professionisti consumano il loro fisico fino all’osso.

“per prolungare la vita sportiva utile, hanno ormai adottato per decreto farmacologico l’abolizione del dolore fisico”.

Attraverso, appunto, l’uso di antidolorifici. L’allarme è stato lanciato da Wilhelm Bloch, docente presso la Scuola dello sport di Colonia, specializzato in traumatologia sportiva. Secondo lui ormai non si assumono antidolorifici solo per consentire all’atleta di superare il dolore ed affrontare le gare, ma anche a scopo preventivo, per scongiurare l’insorgere di dolori.

“per usare la metafora di Bloch, oggi gli atleti assumono antidolorifici come se fossero Smarties. Con gravi rischi per la salute”.

Nadal, Ibrahimovic, Tiago Alcantara. Gli esempi sono tanti. Sono tutti casi emblematici della cultura sportiva di oggi,

“che elegge la strategia della rimozione, in luogo della cura, come soluzione al problema del dolore fisico inabilitante”.

Un uso della farmacologia che non ha nulla a che vedere con la tutela e il ripristino delle condizioni di salute, ma che anzi, ha effetti nocivi sul fisico, perché non porta ad una cura ma solo ad un ulteriore carico di lavoro. Tutto ciò non rientra nel doping, ma è comunque una forzatura.

“Il messaggio sociale che ne deriva è devastante. E ancor più devastante è la narrazione fatta dai media o dagli stessi protagonisti, improntata su una retorica dello sforzo supereroico e sul mito dell’abnegazione verso l’impegno agonistico, quando invece dovrebbero essere sottolineati l’altissimo grado di rischio fisico che deriva da una così azzardata manutenzione del corpo e la necessità di disincentivare qualsiasi tentazione di emulare tali pratiche”.

Ormai è come se si fosse arrivati ad un rapporto alienato tra l’atleta ed il suo corpo, scrive il quotidiano. Per l’atleta professionista il corpo è una macchina essenziale, che va tenuta in condizioni di perfetta efficienza per svolgere le gare ad alto livello.

“E allora l’atleta deve fare ogni cosa per rimettere a posto la macchina della prestazione. Perché così gli viene imposto anche da chi lo paga e non tollera tempi morti. Qui si consuma il tratto più tragico dell’alienazione. L’atleta abusa del proprio corpo per renderlo fit, a scapito della salute. Quel corpo se lo vedrà restituire a fine carriera, come una macchina in condizioni da rottamazione e che invece deve andare avanti per il resto della vita post agonistica. Quando non basterà consumare antidolorifici come fossero Smarties per recuperare una vita degna d’essere vissuta”.

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