Silvia Salis: «Le femmine non sono bamboline di ceramica, devono sentirsi forti come i maschi»

L'ex martellista a Il Giornale: «La frustrazione nella vita è fondamentale, ai bambini si cerca di evitarla. Per un grande obiettivo vanno affrontati grandi ostacoli».

Silvia Salis

Il Giornale intervista l’ex martellista italiana Silvia Salis. Ha vinto dieci titoli italiani tra invernali (6) ed assoluti
(4). Nel 2016 è stata eletta nel Consiglio Federale della Fidal, nel 2017 in quello del Coni, il Comitato olimpico italiano, di cui è vicepresidente dal 2021. Ha appena pubblicato un libro dal titolo «La bambina più forte del mondo», con il quale vuole andare oltre i pregiudizi e i luoghi comuni. Racconta di una bambina mingherlina, Stella, che sogna di diventare una martellista ma il suo allenatore le si oppone.

«Qualcosa sta avvenendo ma resta un mondo molto maschile. Questa mia storia credo possa aiutare ragazzi e ragazze con inclinazioni un po’ “speciali”».

Racconta che il libro è autobiografico all’80%.

«Mi serviva per far capire che, se hai un sogno, vivi anche con una certa indipendenza e trovi gli spazi per coltivarlo. A volte i ragazzi sono figli dei desideri dei genitori, invece il mio voleva essere un inno alla libertà. Qualcosa che bisogna allenare fin da piccoli».

La Salis parla della concezione che si ha delle donne nello sport.

«La forza spesso viene associata a qualcosa di non femminile, invece le donne possono essere forti e poi essere, anche, quello che pare a loro. Per tutta la mia vita da atleta ho subito lo stupore di chi mi chiedeva: ma sei forte? C’è quella favola che le donne siano forti solo d’animo… Anche per questo ho scritto il libro. Perché i bambini devono sentire le bambine come loro pari; e perché le bambine devono sentirsi forti, come Stella. Quando mi allenavo ero dieci chili in più di adesso: i pesi e gli allenamenti avevano trasformato il mio corpo, ma ero felice, perché ero il mio strumento di realizzazione personale. Invece si dice: se fa questo sport si rovina…»

Non è così?

«Sembra che la bambine siano bamboline di ceramica… Per me è stato un cambiamento in cui mi sentivo realizzata, e poi vivevo fra atleti e atlete forti: il mio canone non era una ragazzina con la taglia 38».

Le chiedono se esiste davvero la paura di vincere. Risponde:

«Quando aspetti qualcosa per la quale lavori così tanto, più si avvicina, più sei spaventato. A volte hai perfino un senso di rifiuto».

E come si supera?

«Con l’esperienza»

Le frustrazioni sono importanti.

«È la metafora del libro: gli infortuni, l’allenamento sono la frustrazione, che nella vita è fondamentale. Ai bambini si cerca di evitare qualsiasi frustrazione, ma la vita nel mondo reale è quella… Per un grande obiettivo ci sono grandi ostacoli, e vanno affrontati con fermezza, a volte anche aggirati. Bisogna capire il proprio livello e che cosa fare per migliorare».

Nel futuro che cosa vede?

«Quello che sto facendo, la politica sportiva. Sono nel posto in cui avrei voluto essere: quando hai una esperienza da condividere, il bello è poter incidere sulla vita delle persone. Il solo fatto di vedere una ex atleta che, a 35 anni, è vicepresidente del Coni, è un segnale che le cose stanno cambiando. E, magari, anche un ragazzo può aspirare a fare lo stesso percorso».

Quanto contano le donne nella dirigenza sportiva?

«Ai vertici qualcosa si è smosso, nel quotidiano meno. È chiaro che i numeri debbano cambiare. Certo, il piede nella porta va messo in vista, ma bisogna che porti a un riflesso sul territorio. La chiave è imparare a fare squadra, uomini e donne insieme, e non presentarsi come un team di genere».

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