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Non è Mourinho ad aver vinto la Conference League, è la Conference che ha vinto Mourinho

E’ un brand, più grande della stessa Coppa. L’Uefa non poteva scegliersi un testimonial più efficace per lanciare il suo nuovo prodotto. E ora gongola

Non è Mourinho ad aver vinto la Conference League, è la Conference che ha vinto Mourinho
Mg Tirana (Albania) 25/05/2022 - finale Conference League / Roma-Feyenoord / foto Matteo Gribaudi/Image Sport nella foto: Jose’ Mourinho

Non è Mourinho ad aver vinto la Conference League. E’ il contrario: è la Conference League ad aver vinto Jose Mourinho. Potesse, quell’inanimata e sproporzionata coppa di metallo, alzerebbe al cielo l’allenatore della Roma, sfilando in trionfo con il suo trofeo umano. L’uomo che ha preso una “coppetta” appena neonata, l’ha svezzata, l’ha cresciuta, e alla fine l’ha consegnata al suo futuro: “Vai a papà. Segui la Champions e l’Europa League, ora sei grande pure tu”.

L’avesse vinta un altro, un qualsiasi pur bravo allenatore di mezza classifica, ne staremmo commentando l’esaltazione con condiscendenza un po’ snob: guarda quello, ha battuto “i salmonari” e si commuove. C’è ovviamente chi ci prova lo stesso, sfidando il moribondo senso del ridicolo. Invece, essendo Mou un brand vivente, il meccanismo funziona per converso. Ceferin è in sollucchero, l’Uefa non poteva scegliersi un testimonial più efficace per lanciare il suo nuovo prodotto. Gratis, per giunta. Se lo ritrovano che vaga per uno stadio di Tirana – Tirana! – con le mani in faccia manco fosse il 2004, la Champions con il Porto, o il 2010, quella con l’Inter.

Ogni parola che dice è un gancio pubblicitario. Ogni smorfia contrita è un credito spendibile sul mercato della rilevanza. La Coppa di terzo livello? Se la vince Mou, e la vince sciogliendosi a quel modo, non c’è derisione che tenga. Scatta il riverbero del blasone: c’è davvero qualcuno là fuori che può permettersi di sfottere uno che ha vinto 26 titoli in carriera – lui, Ferguson, Trapattoni (“quanto mi fa sentire vecchio”, dirà) – e una Coppa europea 19 anni dopo essersi preso la Coppa Uefa col Porto, nel 2003?

“La cosa bella della mia carriera è che, a parte l’Europa League con il Manchester United, vincere con Porto, Inter e Roma è molto, molto, molto speciale”, detta lui. Il quale conosce perfettamente la misura del successo. Il metro, si può dire, l’ha tarato lui. Prende, quindi, ma soprattutto dà. Certifica. E’ un notaio. Una coppa alzata da Mourinho è come una maglia indossata da Messi. Si comprano entrambe in un qualunque negozio d’articoli sportivi, ma tutti ambiranno a conquistare il pezzo unico, l’originale.

Nella rimessa invidiosa del commento social – “guardali, festeggiano la coppa dei perdenti” – si sono persi il pezzo cardine del puzzle: Mourinho. Che s’aggira per l’Europa come un fantasma d’altri tempi, abitandola come solo i grandi possono fare. Sentendosi a ragione coinquilino di un Olimpo. Questa superiorità acquisita è un traino che spazza via la pochezza della spocchia altrui. Quelli che non vincono ma blaterano di “vincere!” imperativo categorico.

Basta scivolare velocemente sulla rassegna stampa internazionale di oggi. Non è la Conference League il titolo. E’ Mourinho. La Coppa è il contesto, una quinta. La Roma è un beneficiario: veniva da 4 finali perse, 11 cambi d’allenatore e 5 presidenti diversi, otto derby perduti, e gli ultimi tre campionati chiusi dietro la Lazio. E’ arrivato lui, taumaturgico, analgesico, e ha raso al suolo la storia contemporanea del club. Chi pensa sia per caso è bene che torni a parlare di carica virale e vaccini magnetici.

Passato l’hangover della festa giallorossa, resterà sul campo la Conference League. Come un sedimento. Al primo anno se l’è presa uno dei più grandi di tutti. Battesimo e cresima, due in uno. L’Uefa gongola più di Roma.

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