ilNapolista

Il Milan da scudetto nasce con Ibrahimovic e il fosso scansato di Rangnick

Il primo fu un regalo dell’incompetenza del Napoli, il secondo un ravvedimento che arrivò al termine di un terremoto dirigenziale. Rimase Pioli e la storia è andata come sappiamo

Il Milan da scudetto nasce con Ibrahimovic e il fosso scansato di Rangnick

Avvertenza: i tifosi del Milan tocchino tutto quel che c’è da toccare, qui si parla di come è stato costruito il Milan da scudetto.

Come talvolta accade, le squadre vincenti nascono anche per caso, per una serie di coincidenze che indirizzano il club in una determinata direzione. Il Napoli del primo scudetto in estate non riuscì ad acquistare Junior anche perché Allodi era stato deferito per una presunta combine della partita Napoli-Udinese. Il club rimase senza regista e a ottobre venne acquistato dalla Triestina Francesco Romano che risultò poi decisivo. Sempre in quegli anni, l’Inter trapattoniana dei 51 punti deve molto a Madjer che non superò le visite mediche, al suo posto il club acquistò Ramon Diaz che si rivelò preziosissimo.

È successo anche al Milan che a due giornate dalla fine del campionato ha due punti di vantaggio sull’Inter. Ma è sbagliato parlare solo di casualità. Due gli eventi chiave che hanno indirizzato il destino rossonero. Entrambi relativi alla stagione 2019-2020. Uno è dovuto all’incompetenza altrui e a Napoli sappiamo tutto del naufragio dell’operazione Ibrahimovic. Anche se, come spesso accade da queste parti, i dolori o le cosmiche figure di merda vengono rimosse come se non fossero mai esistite. Uno sliding doors dalle conseguenze terrificanti. Le porte girarono e da noi finì Gattuso mentre Zlatan prese atto delle porte in faccia e Raiola lo dirottò a Milano. Lo svedese sbarcò a Milanello all’indomani della tremenda scoppola rimediata contro l’Atalanta: 5-0. Dopo 17 partite, il Milan aveva 21 punti. Persino tre in meno del Napoli post-ammutinamento. Un disastro.

L’arrivo di Ibrahimovic invertì il corso della storia. In 21 partite il Milan totalizzò 45 punti. Fece registrare il secondo miglior piazzamento nel girone di ritorno (dietro l’Atalanta). Rimontò dall’undicesimo al sesto posto e si qualificò per l’Europa League. In 18 partite, Ibrahimovic piazzò 10 gol e 5 assist. Not too bad avrebbe detto Djokovic (non è un errore) in una celebre conferenza stampa.

Ma Ibrahimovic non fu l’unica sterzata al corso della storia rossonera. L’altra, e stavolta di casuale non c’è proprio nulla, riguarda Ralf Rangnick. Il tedesco autore del miracolo calcistico Lipsia, ottimo direttore sportivo, decisamente meno come allenatore come hanno scoperto a loro spese i tifosi del Manchester United.

Rangnick è importante sia per comprendere il Milan oggi, le origini di questa squadra da scudetto, sia per farsi un’idea del potere delle mode, di quanto possano influenzare sia pure in un ambito in cui a farla da padrone dovrebbero essere solo i trofei e i risultati. Rangnick ha dalla sua l’ottimo lavoro svolto all’Hoffenheim (portato dalla Serie C ai primi posti della Bundesliga) e soprattutto il grande merito di aver costruito il Lipsia che arrivò a giocarsi la semifinale di Champions League. Un lavoro eccellente. Soprattutto dietro la scrivania. Da allenatore, invece, decisamente meno. meno. Bravissimo fra crescere i piccoli club, prima dello United non aveva mai allenato ad alto livello. Il suo palmares (il curriculum) parla: una Coppa di Germania e una Supercoppa con lo Schalke e un campionato di Serie B con l’Hannover. Se avesse giocato un calcio datato, sarebbe stato trattato come un Nedo Sonetti qualsiasi. Poiché è sempre stato uno degli adepti del calcio contemporaneo, è stato mediaticamente sostenuto fino a raggiungere la panchina dello United probabilmente il posto di lavoro più prestigioso del calcio dopo il Real Madrid. A Manchester ha preso la squadra a tre punti dal quarto posto (quarto era il West Ham con 24) e adesso è già aritmeticamente fuori gioco. Sabato scorso, lo United ha perso 4-0 col Brighton.

Rangnick dunque. Nella stagione 19-20, quella della pandemia, il Milan venne percorso da un terremoto dirigenziale. Senza avvisare né Boban né Maldini, Elliot e Gazidis avevano deciso che il tempo di Pioli era finito e che al suo posto sarebbe stato ingaggiato il tedesco (che oggi ha 64 anni). Boban andò su tutte le furie, parlò di ingerenze nel suo lavoro, in sostanza accusò di scorrettezza il club. E venne licenziato. Maldini non fu così brusco, utilizzò un’altra forma, ma nella sostanza cambiò poco. I due avevano avviato il progetto, avevano già preso Leao, Hernandez, Bennacer, Kjaer, Saelemaekers. Ma con Rangnick era praticamente tutto fatto. Era stato stabilito anche il compenso del profeta del nuovo calcio (triennale da 5,5 milioni netti) con uno staff composto da sette persone.

La teoria si infranse però sulla pratica. Ibrahimovic prima risollevò la squadra, poi rilasciò una frase che ebbe il suo peso («Rangnick? Non lo conosco»). Pioli raggiunse l’obiettivo Europa League e la dirigenza ebbe l’intelligenza di capire che forse non era il caso di farne una questione di principio. Il campo aveva parlato, sin troppo chiaramente.

Lo fece (parlare) lo stesso Rangnick che nell’agosto del 2020 rilasciò alla Gazzetta un’intervista che definire piccata è poco. Con un titolo che oggi è uno show comico: «Milan, potevi svoltare». Prese atto alla sua maniera che le cose erano cambiate:

«La squadra è stata la migliore post Coronavirus. Cambiare non sarebbe stato saggio né rispettoso. Pioli ha meritato la conferma, anche per la persona che è: l’ho apprezzato nelle interviste, sempre concentrato sugli obiettivi. Se poi è la scelta giusta nel medio e lungo termine è un’altra questione».

«Posso parlare di Maldini ex giocatore: è stato straordinario, una leggenda vera e propria. Ma non posso dire lo stesso da direttore sportivo: semplicemente, non lo conosco in questo ruolo. Da esterno ci si può chiedere se la proprietà è contenta dei risultati in rapporto al denaro investito negli ultimi anni».

«Ibrahimovic? La domanda da fare è un’altra. Perché il Milan si era rivolto a me? Cosa mi volevano far fare? Se lo ha fatto è perché, magari, cercava una svolta. Lavoro alla crescita, e i giovani imparano molto più in fretta. Non è nel mio stile insistere su giocatori di 38 anni, non perché non siano abbastanza bravi, e Ibra certamente lo è, ma perché preferisco creare valore, sviluppare il talento. Per me ha poco senso puntare su Ibra o Kjaer, ma è la mia idea, né giusta né sbagliata, semplicemente diversa. Quando Ibra ha detto di non conoscermi non aveva torto, perché anch’io non lo conosco personalmente, non avendoci mai parlato».

Giustamente elogiò il suo lavoro al Lipsia e facendo esercizio di modestia disse:

«Alla Red Bull l’idea di gioco è sempre stata un calcio ad alta velocità con pressing e contro pressing, in America ora lo chiamano “Ralfball”».

Ralfball, proprio così disse.

La stagione successiva l’uomo di 38 anni che Rangnick avrebbe voluto pensionare, segnò in Serie A 15 gol in 19 presenze. Il Milan di Pioli arrivò secondo, conquistò la qualificazione Champions e rafforzò ulteriormente quel progetto che oggi – milanisti toccatevi – li ha portati a un passo dal traguardo. Con Maldini al suo posto, Ibrahimovic in campo (poco) e nello spogliatoio, Pioli in panchina e Rangnick lontano da Milanello. La combinazione vincente.

ilnapolista © riproduzione riservata