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Maradona Sueño Bendito è un’occasione persa. Bello il contesto storico, e basta

Troppe imprecisioni, troppa approssimazione su Maradona che in fondo non viene raccontato se non attraverso le beghe della sua vita privata

Maradona Sueño Bendito è un’occasione persa. Bello il contesto storico, e basta
1987 archivio Storico Image Sport / Argentina / Diego Armando Maradona / foto Imago/Image Sport

La morte di Juan Peròn a Villa Fiorito è vissuta come un dramma sociale. «Chitoro» la accoglie coi lacrimoni. Come se fosse morto uno di famiglia. Nel frattempo, Donna «Tota» fa sempre più fatica a raccogliere l’acqua coi secchi, nel giardino decadente di una catapecchia senza luci. Il piccolo Maradona è appena rientrato dall’allenamento. Se l’hanno preso le Cebollitas è perché un suo amico, Goyo Carrizo, era riuscito a segnalarlo a Francis Cornejo, l’allenatore. «El Pelusa, un mio amico, è più forte di me», gli aveva detto. E Cornejo, che a Dieguito aveva pagato perfino il viaggio, era rimasto tanto stregato dalla classe di quel ragazzino da non credere di avere a che fare con un bimbo di nove anni. Pensava che gli mentisse, che fosse più grande.

La vita, in Argentina, è sangue e merdaDi lì a poco sarebbe arrivata la dittatura militare. E Maradona avrebbe cominciato a giocare con la seconda squadra dell’Argentinos Junior. Iniziando a girare il mondo «per non tornare mai più a Fiorito». In autobus, all’inizio. Negli autobus che collegano il centro con le periferie, geografiche e culturali. Negli autobus braccati da quegli stessi militari a cui suo padre gli implora di nascondere l’appartenenza peronista.

Poi, c’è il 1979. E le madri di Plaza De Mayo che occupano le piazze di Buenos Aires proprio mentre Diego, laureatosi campéon in Giappone, viene ricevuto con la Nazionale giovanile di Menotti da Jorge Videla, il Presidente, il capo dei militari. Il calcio è l’oppio. È il fumo di cui il regime si serve per annebbiare il dramma dei desaparecidos. È anche uno sfogo per la povera gente, certo, se conta a qualcosa. Era stato così pure nel 78’, un anno prima, quando Maradona al Mondiale dei grandi, poi vinto dall’Argentina di Passarella   non venne convocato.

Se per premesse possiamo intendere i primissimi episodi del racconto del «sogno benedetto» di Diego Armando Maradona su Prime Video, allora potremmo definire le premesse più che interessanti. La scelta – giusta, almeno per chi scrive – sembra quella di legare a doppio filo la vita e la carriera di Diego alla storia. Soprattutto quella del suo Paese. Le origini del suo mito, d’altronde, non stanno semplicemente nel rettangolo verde. Vanno oltre, ben oltre. Si spingono fin dentro le pieghe più crude di quel Novecento a dispetto del quale ci sentiamo tutti sempre troppo piccoli. La storia di Maradona e anzi il mito di Maradona può essere raccontato soltanto dentro il racconto di quel mondo, che cambiava continuamente. E che era violento, fatto di idee, di valori e disvalori, di povertà e di lussuria, di lotte di potere, di guerre e di rivoluzioni. Un mondo profondamente diverso da quello di oggi. Fuori da quel mondo, quel mito non si può capire. Fuori da quel mondo, farebbe fatica a capirlo perfino chi l’ha vissuto. Figuriamoci i giovani e giovanissimi che smanettano su Amazon Prime Video.

L’intuizione, quindi, è intrigante. Portare lo spettatore in quel mondo, farglielo attraversare. Per poi permettergli di comprendere il mito di Diego. Il punto è che resta un’intenzione. Non è abbastanza coltivata. Episodio dopo episodio, minuto dopo minuto, la serie allenta sempre di più il laccio tra Maradona e la storia, Maradona e gli anni Settanta, Maradona e gli anni Ottanta. E nel tentativo di spostare il focus solo sul personaggio, del personaggio non viene raccontato più nulla di interessante. Se non le beghe della sua vita privata. Di una parte della sua vita privata. E che vita privata, ci mancherebbe altro. Una vita privata cinematografica, con tutto il rispetto per Totti che “sperava de morì prima”. Ma che, nonostante ciò, rende il prosieguo del racconto, almeno per come viene strutturato, insufficiente a trasferire qualcosa di più rispetto ad una comune soap opera. 

Spezzato quel fil rouge, venuto meno quel contatto tra le vicende storiche e sociali di quel mondo complesso e lo scorrere della di vita di Diego, finisce tutto il fascino di “Maradona: Sogno Benedetto”. Per dire: la cosa più interessante diventa il rapporto morboso col suo secondo procuratore, Coppola. A cui è dedicato uno spazio enorme. Probabilmente esagerato.

E questo al netto delle troppe imprecisioniImprecisioni su imprecisioni. In una quantità inaccettabile per un prodotto di così grossa portata. A cominciare dal Delle Alpi che diventa – invece del San Paolo – il teatro della punizione storica che Diego segnò contro ogni legge della fisica. Ma passando pure per le immagini degli stadi, delle partite e delle interviste che tutte, nel complesso. appaiono recenti, moderne, finte, plasticose, lontane anni luce dagli anni 80’. Lontane anni luce dall’assomigliare alla realtà.

E poi Napoli. Napoli non c’è. Va detto con la buona pace di Eduardo De Angelis, il regista degli episodi partenopei che Kusturica aveva definito «visionario». Questo potrebbe lasciar presagire (in realtà se ne vocifera) che ci sarà una seconda stagione. In cui è auspicabile che il rapporto tra Diego e la nostra città, dove s’è consumata peraltro la parte più rilevante della sua vicenda, sportiva e non solo, venga sviscerato per davvero. Per ora, zero. Poco e niente. A Napoli c’è il sesso, c’è la coca, ci sono le donne. C’è la frequentazione con la Sinagra, la sua gravidanza. C’è un accenno al razzismo degli stadi del Nord: a Diego lo spiega Bertoni. Ma di Napoli non si racconta nient’altro. Non c’è neanche la retorica scontata e spicciola (e a volte insopportabile) del Masaniello, e questo forse è l’unico fatto apprezzabile. Il Maradona della serie tv, al contrario (ed è un eccesso opposto), è quasi sprezzante verso i napoletani. Forse perfino troppo, a tratti addirittura fastidiosamente. Li considera pazzi, stupidi. Si lascia andare pure a qualche offesa alle spalle di un luminare dell’ortopedia che avrebbe dovuto visitarlo e che invece – tifoso – sviene quando l’incontra. L’immagine di Napoli, poi, all’arrivo di Maradona (accompagnato dalla sua compagna Claudia), è a dir poco caricaturale. Se pure servisse a marcare una qualche differenza con Barcellona, s’è comunque esagerato. Le strade saranno state pure sgarrupate, ma di certo non da terzo mondo come vengono rappresentate. “Sembra Fiorito”, arriva a dire Claudia. E i camorristi c’erano, eccome, certo che c’erano, ma non assomigliavano ad Asterix e Obelix incattiviti. Davvero: se il tentativo era far paura, la rappresentazione della camorra in “Sogno Benedetto” fa tutto fuorché paura. Compreso Riccardo Scamarcio (che interpreta Carmine Giuliano) col suo tentativo poco credibile di recitare in dialetto napoletano.

Dunque, di Maradona Sueño Bendito si può salvare l’intenzione. È pensato bene, almeno nell’approccio. Ma è un’intenzione che resta lì, che non viene sviluppata con la giusta coerenza narrativa. E che anzi ad un certo punto viene abbandonata, per lasciare il passo ad altro. Per fare spazio ad un racconto individuale e individualista che diventa forse addirittura vuoto, oltre che distante dalla realtà. Sicuramente diventa comune, mediocre. E la storia di Maradona tutto può essere tranne che mediocre, tranne che «comune». Lo scrisse lui stesso. La superficialità del prodotto, insomma, non è giustificabile, specie considerato il valore della produzione (di Amazon) e la pomposità delle pubblicità, che a Napoli sono arrivate fin dentro le metropolitane. Nel complesso era lecito aspettarsi di più e, viste le premesse, un po’ dispiace.

Ah, un post scriptum: guardatelo in lingua originale. Il doppiaggio, francamente, non è proprio cosa.

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