Al CorSera: «Da bambino ero grosso, occhialuto, inguardabile e rompipalle. Con la mia mental coach abbiamo rimosso i pensieri-spazzatura»

Il Corriere della Sera intervista Sonny Colbrelli. Lo scorso 3 ottobre, alla prima partecipazione, ha conquistato
la 118ª Parigi Roubaix imponendosi in volata sul belga Vermeersch e sull’olandese figlio d’arte Van der Poel, dopo una corsa sotto la pioggia e nel fango. Erano 22 anni che ad un ciclista italiano non riusciva l’impresa. Dopo la vittoria, Sonny scoppiò a piangere: quella vittoria, racconta, era «il riscatto di una vita di sacrifici».
Si racconta da bambino, quando aveva dieci anni:
«Ero grosso, occhialuto, con due fondi di bottiglia grandi così per correggere miopia e strabismo e un ciuffo di capelli che a furia di stingerli erano diventati bianchi. Inguardabile. Ed ero un rompipalle: facevo i dispetti ai ragazzini di Casto, comunità montana della valle Sabbia, in provincia di Brescia, dove sono cresciuto, e quelli li facevano a me. Partivo in bici per fare il giro del paese, un percorso di due chilometri, ma mangiavo come se ne dovessi pedalare sessanta: cioccolata, coca cola e panini con la mortadella. E poi quel nome: Sonny in onore di Sonny Crockett, detective di “Miami Vice”. I miei erano invasati del telefilm».
Per arrivare a traguardi come quelli di oggi, ha dovuto sacrificarsi parecchio. A partire dalla dieta.
«La dieta: dal terzo anno da professionista ho smesso di essere sovrappeso. Correvo con 7-8 chili di zavorra. Ricordo una volta in Qatar, con la Bardiani di Bruno Reverberi, che non è uno che te le manda a dire. A tavola mi vede bere un litro di acqua gassata. Batte i pugni sul tavolo, sbotta: sei già gonfio, che cavolo fai? Ho capito che non scherzava. Quell’inverno col cibo mi sono tenuto, l’anno dopo ho vinto sette gare. Da lì non ho più sgarrato».
La rinuncia più grande?
«Andare a letto con la fame. Duro ma necessario».
Non ha lavorato solo il corpo, ma anche sulla mente.
«Paola Pagani, la mia mental coach, dice che abbiamo fatto un lavoro di rimozione dei pensieri-spazzatura. Oggi non vado, mi fermerò, non ce la faccio… Quando ne affiora uno mi dico che va tutto bene, che io là davanti con i migliori ci posso stare perché me lo merito. Vengo da una famiglia di operai, conosco il valore dei sacrifici e della fatica».
E proprio la mentalità operaia è uno dei suoi segreti.
«La fabbrica è stata la mia salvezza. Prima le maniglie, dove lavorava papà Chicco, poi i tubi: alle 6 del mattino li tiravo fuori dal forno e li caricavo sui camion. Finito il turno, via in bici ad allenarmi: un paradiso, in confronto. A 17 anni ho detto a mio padre: scegli tra la tuta da operaio e quella da corridore. E lui: vai pure in bicicletta».
Racconta suo nonno Celestino, anche lui operaio:
«Ai meno 3 km dal traguardo della Roubaix, ho accarezzato il taschino dove tengo la sua foto scolorita e ho guardato il cielo: nonno, fammi fare il numero della vita. Mi veniva a prendere a scuola, mi portava in pista a Dalmine, con la pensione mi comprava barrette, gel, pezzi di ricambio. Sognava di vedermi professionista, se n’è andato in due settimane per un tumore. Spero di averlo ricambiato».