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Mourinho: «L’allenatore non può sapere solo di calcio, deve avere l’ossessione della cultura generale»

Ad Esquire: «Una delle poche pressioni che sento nella vita è quella di essere un uomo come mio padre. Mi sento molto più allenatore oggi che 10 o 20 anni fa»

Mourinho: «L’allenatore non può sapere solo di calcio, deve avere l’ossessione della cultura generale»
Roma 12/09/2021 - campionato di calcio serie A / Roma-Sassuolo / foto Insidefoto/Image Sport nella foto: Jose' Mourinho

L’allenatore della Roma, José Mourinho, ha rilasciato una lunga intervista alla rivista statunitense Esquire. Parla del ruolo dell’allenatore.

«Il calcio si è sviluppato in una direzione dove il lavoro di noi allenatori è sempre più complesso. Rispetto alle generazioni precedenti dobbiamo avere questa… io direi cultura generale, l’ossessione di sapere un po’ di tutto, perché veramente il nostro lavoro oggi non è solo sapere di calcio».

Su suo padre:

«Più che maestro di calcio, maestro di vita. Se oggi potessi scegliere un padre tra tutti gli uomini che ho incontrato non ci penserei due volte, lui era perfetto. La via che gli hanno dedicato è arrivata in ritardo, è un tipo di omaggio che avrebbe avuto un significato con la sua presenza. Una delle poche pressioni che sento nella vita è quella di essere un uomo come lo è stato lui. La cosa principale che mi ha insegnato è l’onestà, questo modo di vivere, di non essere falso, di non cercare di dimostrare quello che non so. Essere solo me stesso e non perdere mai la mia identità e i miei principi. Ho imparato tanto da lui, ma più nella vita che nel calcio».

In cosa si sente migliorato rispetto a 10 anni fa?

«Tutto. Se un allenatore non migliora è perché ha perso passione e ha perso la mentalità di imparare ogni giorno. Non è un mestiere per cui è fondamentale l’età o la situazione fisica, al contrario dei calciatori. L’esperienza ti può solo migliorare. Io penso solo alla prossima partita. Tutti i match che hai giocato e i trofei che hai vinto, quelli sono in tasca e avrai tempo di guardarli quando hai smesso. Adesso voglio solo pensare alla prossima partita. Io mi sento molto più allenatore oggi che 10 o 20 anni».

Se potesse regalare qualsiasi cosa alla Roma cosa le regalerebbe?

«Titoli, perché di titoli vive una società, perché i titoli alimentano la passione dei tifosi. Ho capito subito che l’amore che si prova per la Roma va oltre i trofei, è una passione eterna, sanguigna e anche familiare. Però la vittoria è quello che manca e stiamo costruendo un progetto per arrivarci. Se arriverà con me sarà perfetto, altrimenti sarebbe bellissimo aver contribuito alla costruzione di questo futuro, che è il sogno di tutti».

Qual è il suo rapporto con la tecnologia?

«Se non sai niente di tecnologia sei indietro o come minimo non hai la possibilità di evolverti. Noi per esempio adesso abbiamo un mega schermo nel campo di allenamento, in connessione diretta con un drone che è lì durante la sessione tattica e in tempo reale possiamo lavorare e fermarci a guardare quello che abbiamo fatto. Questo è solo un esempio molto pratico di come ci aiuta in campo. La tecnologia è anche quella delle partite, dove io ricordo sempre che ho perso una semifinale di Champions con un gol fantasma, oggi avrei giocato quella finale e invece di Liverpool – Milan ci sarebbe stato Chelsea – Milan. La tecnologia ci aiuta anche nell’analisi delle partite, nello scouting e in tanti altri aspetti del nostro lavoro. Però non bisogna esserne ossessionati, niente può sostituire l’intelligenza e il know-how del cervello umano. È uno strumento prezioso e se non lo conosci sei indietro».

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