ilNapolista

Billie Jean King: «Chi gioca oggi non sa niente delle nostre lotte. Vogliono solo più soldi, ma sono ignoranti»

La tennista americana a Repubblica: «La battaglia per l’equità salariale resta importante. I soldi non sono una vergogna, ma un valore. Alle donne dico: non piangete, organizzatevi».

Billie Jean King: «Chi gioca oggi non sa niente delle nostre lotte. Vogliono solo più soldi, ma sono ignoranti»

Su Repubblica una lunga intervista alla tennista americana Billie Jean King, una delle più grandi della storia: al suo attivo 39 Slam (fra singolare, doppio e misto), compresi i 20 a Wimbledon. E’ fresca di stampe la sua autobiografia, “Tutto in gioco”. Ha cominciato a giocare a tennis quando il tennis era uno sport prettamente maschile. Se le tenniste hanno raggiunto la posizione che occupano, oggi, il merito è di chi le ha precedute, come lei.

«Il merito è di noi pioniere. Oggi le nuove generazioni non sanno niente della storia prima di loro. Delle fatiche e delle conquiste. Non si interessano. Si lamentano perché vogliono più soldi, ma sono ignoranti. Nessuno che le istruisca. Anzi i manager e chi si occupa di loro vogliono che restino così: cara, pensa al gioco, non preoccuparti di altro».

Continua:

«Non ho mai avuto paura di affrontare gli uomini sul loro terreno. A queste ragazze dico: imparate a fare trattative, sappiate che la parola compromesso a volte può essere meno peggio di quello che sembra, alzate la testa, interessatevi a quello che capita attorno a voi: dall’emergenza climatica alle ingiustizie alle discriminazioni. Non è mai troppo vero che quelle cose non c’entrano con il gioco».

Cosa c’è che ancora non va?

«Quando chiedo ai giovani perché giochi a tennis? La risposta è: non so. Io lo sapevo: mi piaceva colpire la palla, mi piace ancora, amavo quel rumore. A 10 anni ho scoperto cosa fare nella vita e ho deciso che sarei stata la numero uno».

Sull’Italia:

«Vi adoro, nonostante tutto. Nel 1970 agli Internazionali di tennis in Italia il vincitore prendeva 7.500 dollari, la donna 600. La disparità era 12 a 1. Vinsi e protestai, la risposta fu: se non vi piace, non tornate. La mia ultima volta fu a Perugia nell’82. Non sono mai stata così incoraggiata dal pubblico, come da voi. (….) Io non sono per il silenzio, mi piace sentire gli umori, il calore. Non vengo dai club aristocratici, ma dai parchi pubblici. Mio padre era pompiere, mia madre casalinga. Lavoravo per mantenermi, anche se già avevo vinto Wimbledon. Noi siamo performer, il nostro spettacolo è per il pubblico. Sono onesta, lo ammetto, mi piace il tifo dei fans, pure sguaiato. (….) Sui soldi siete stati taccagni, sull’affetto molto generosi».

Sulla battaglia per l’equità salariale:

«Resta importante. I soldi danno scelta, opportunità, indipendenza. Qualità e organizzazione. Althea Gibson, la prima afroamericana a vincere un titolo del Grande Slam diceva: i trofei non si possono mangiare. Quando avevo 10 anni mia madre mi mostrò il bilancio familiare e mi fece capire che tutto ha un costo. Novak Djokovic è a capo della Professional Tennis Players Association dove si parla solo di esigenze maschili e poco delle donne. Ci risiamo, verrebbe da dire. Quando nel ’76 divenni la prima a vincere 100 mila dollari di premi l’anno, il presidente Richard Nixon mi chiamò per congratularsi, vuol dire che significava qualcosa. Cinque anni dopo Chris Evert superò il milione di dollari. Tante impiegate dichiararono che il mio successo su Bobby Riggs nella “Battaglia dei Sessi” nel ’73 le aveva incoraggiate a chiedere un aumento. Anche Obama mi ha confessato di aver visto quell’incontro e di averlo citato alle figlie. I soldi non sono una vergogna, né una debolezza, ma spesso un valore. Quindi sì, equal pay for equal work».

L’eredità più importante che lascia è fuori dal campo, dice.

«Fuori. È sociale. E quello che ho fatto fuori ha ostacolato la mia carriera. Ne parlavamo con Muhammad Ali, un amico. Avrei vinto di più se mi fossi limitata a giocare, ma forse non avrei migliorato un po’ il mondo».

Si pronuncia anche su Djokovic, che forse non andrà in Australia se lo obbligheranno a vaccinarsi.

«Io ho fatto anche la terza dose. Pazienza, si farà il torneo senza Djokovic. Bisogna capire che la libertà non è libera. Impone responsabilità e consapevolezza. In questo caso verso la salute pubblica. Quando sei un personaggio famoso hai un dovere in più. Può non piacerti, ma è così. Freedom is not free».

E conclude:

«Sono stata fortunata, se nel ’54 in quinta elementare la mia amica Susan Williams non mi avesse chiesto: ti va di giocare a tennis?, non sarei qui. Alle donne dico: non piangete, organizzatevi. Bisogna ascoltare, coltivare alleati, e poi sferrare il colpo. La partita è ancora lunga, ma io la giocherò sempre».

ilnapolista © riproduzione riservata