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Bonucci Chiellini e Donnarumma ci hanno spiegato perché non si vince per caso

Tre fermo immagine che spiegano lo sport, la gestione della tensione, il superamento dei propri limiti. Prima che la faziosità torni a ottunderci le menti

Bonucci Chiellini e Donnarumma ci hanno spiegato perché non si vince per caso
Roma 16/06/2021 - Euro 2020 / Italia-Svizzera / foto Uefa/Image Sport nella foto: Giorgio Chiellini infortunio

La genialata di Roberto Mancini è stata quella di creare un sistema calcistico temperato. Italia propositiva, creatrice di gioco, ma non integralista. La costruzione da dietro a tutti i costi, insomma, fatevela con la PlayStation. Per la serie “’cca nisciuno è fesso”. Ha cambiato la percezione culturale del calcio italiano senza metterne in discussione i capisaldi. Perché senza Donnarumma Bonucci e Chiellini – e probabilmente anche senza uno solo dei tre –  nemmeno ai quarti di finale saremmo arrivati.

Con buona pace di Jorginho, i tre nomi non sono casuali. Nelle ultime tre partite, e in particolar modo in finale, il trio ha dimostrato – qualora ce ne fosse bisogno – che non si arrivava a vincere per caso. Né tantomeno a guadagnare 12 milioni netti l’anno solo perché hai un bravo procuratore.

A Wembley, Donnarumma Bonucci Chiellini sono stati l’equivalente di Djokovic a Wimbledon. Ha fatto bene Berrettini a dire che avrebbe potuto giocare meglio. Ma non deve dannarsi più di tanto. Per due motivi. Primo: non ha giocato meglio perché di fronte aveva un mostro che non lo ha fatto giocare al meglio; secondo: se avesse alzato il proprio livello, il serbo avrebbe fatto altrettanto. I fuoriclasse si sentono a proprio agio quando agli altri comincia la tremarella. È quel che abbiamo visto ieri sera a Wembley.

Bonucci e Chiellini ci hanno spiegato, come si fa con i bambini, che loro non vincono perché giocano a Torino, semmai giocano a Torino perché vincono. E più tempo impieghiamo a introiettare questa verità, più tempo passerà prima di immaginare di poter vincere qualcosa anche dalle nostre parti.

Chiellini. C’è un fermo immagine che andrebbe mostrato nelle scuole calcio, o al cinema prima degli spettacoli. È il placcaggio di Chiellini al 90esimo nei confronti del 19enne Saka che stava involandosi sulla destra e avrebbe potuto creare un’occasione molto pericolosa. Chiellini non ci ha pensato due volte, lo ha afferrato per la collottola e lo ha inchiodato al terreno. È stato il rigore del nostro capitano. C’è tutto in quel gesto. C’è la capacità di capire – in un nanosecondo – che se perdi l’attimo, perdi l’Europeo, perdi una porzione importante della tua carriera. Quando sei un fuoriclasse, sai in anticipo quel che sta accadendo. E Chiellini ha avuto la netta percezione di quel che stava andando in scena davanti ai suoi occhi. Ha perso l’anticipo ma non il fiuto del campione. Anche su Sterling, ben lanciato, si è fatto trovare al posto giusto nel momento giusto. Come se fosse naturale. Come se non esistesse altro posto in mezzo al campo. Chiellini è stata una lezione – che ahinoi a Napoli dimenticheremo molto presto – su che cosa voglia dire costruzione della vittoria, capacità di andare oltre i propri limiti, gestione perfetta dell’adrenalina, abitudine all’alta tensione. Ha giocato la seconda finale dell’Europeo nove anni dopo. La prima volta, uscì per infortunio; la seconda, ha chiarito perché Mourinho disse che lui e Bonucci avrebbe dovuto tenere corsi a Harvard sulla difesa nel calcio. E sì, allunga le mani, si aiuta coi gomiti, ma fa tanto tanto altro. Regge le squadre e le porta a vincere un Europeo dopo cinquantatré anni.

Donnarumma. Il secondo fermo immagine è quello di Donnarumma. Che dopo aver parato i suoi rigori, anche l’ultimo sul povero Saka (quante ne ha prese tra ieri sul campo e oggi dai razzisti), si è rialzato con la stessa smorfia di Bud Spencer quando si ritrovava l’ennesimo fastidioso avversario che non voleva sapere di arrendersi e continuava a menare cazzotti che facevano il solletico al gigante buono. A 22 anni, ha inanellato in sequenza tre partite che nel 90% dei casi non si mettono in fila in una intera carriera. Facciamo sconti sulle prime quattro partite, compresa l’Austria. Partiamo dal Belgio, da quel tuffo sul tiro di De Bruyne. Tuffo e deviazione che sono stati un manifesto politico. Che hanno fatto correre un brivido lungo la schiena dei belgi: nello stesso istante, tutti – tra campo e panchina – avranno partorito lo stesso identico pensiero: e quando gli segniamo? Ha abbassato la saracinesca ai rigori alla Spagna. E in finale ne ha parati due, in realtà sono tre. Perché Rashford, per non vederselo parato, ha dovuto angolare il più possibile e ha finito per colpire il palo. Si chiama errore indotto. Chi ha negli occhi la maledetta finale 1984 del Roland Garros, ricorderà che McEnroe perse l’incontro con un errore per lui inconsueto, volée di dritto in campo aperto messa in corridoio, allargata troppo. Perché? Perché sentiva il rumore degli zoccoli del nemico. Perché Lendl troppe, tante, gliene aveva prese e lui per paura aprì l’angolo. Proprio come Rashford. Il resto è storia. Come quella smorfia che ha accompagnato il rimettersi in piedi dopo aver parato un rigore che a soli 22 anni iscrive il suo nome accanto a quelli di Zoff e Buffon.

Bonucci. Il terzo fermo immagine è lui. Quel suo gesto che tanto fastidio ci ha sempre fatto. Sciacquatevi la bocca, oppure semplicemente ricordatevi questo volto (modello “look me” di Così parlò Bellavista). Un difensore centrale che ha trasformato i suoi rigori sia contro la Spagna sia contro l’Inghilterra. Un difensore centrale che ha avuto ben chiaro in testa che il nostro attacco il gol avrebbe potuto anche non segnarlo mai. E che c’era bisogno di gettarsi in area. Come ha fatto lui. E se al suo compare – Chiellini – lo hanno affondato nell’azione del pareggio, lui è stato più lesto, era là, come Paolo Rossi (con buona pace di Raspadori che se l’è visto tutto dalla panchina) e ha riportato la Coppa giù da Buckingham Palace. E dopo, come se nulla fosse, è tornato nella sua trincea. Chiamarla comfort zone proprio non si può. E ha accelerato seguendo gli scatti di Sterling, sempre attento non diciamo a non commettere fallo (quello è il minimo), a non concedere alcun appiglio per qualsiasi evoluzione. Ha ripreso la sua postazione, e ha ricominciato a infondere quella lieta sensazione che seppure avessimo giocato sette tempi supplementari non ci avrebbero non diciamo segnato, ma neanche tirato in porta. Poco alla volta, col passare dei minuti, il pur regale Harry Kane è progressivamente appassito. Anche lui c’era nel 2012, quando perdemmo con la Spagna. Anche lui, come Chiellini, c’era in tante sconfitte europee della Juventus. Ciascuna è stata una ferita che ha contribuito al feroce Europeo giocato nel 2021.

Tre fermo immagine. Nella speranza che la faziosità possa fare più fatica del solito a ottundere le menti.

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