Berrettini: «Mattarella mi ha detto: “sei stato pazzesco”»
Al Corriere: «Non ringrazierò mai abbastanza mio fratello che mi convinse a lasciare il judo per il tennis. Sono la dimostrazione che il lavoro paga»

Il Corriere della Sera intervista Matteo Berrettini. Ha perso in finale a Wimbledon contro Djokovic, ma è stato l’unico italiano ad arrivare a quel traguardo. Dopo la premiazione, ha raggiunto Wembley, per assistere alla finale di Euro 2020 tra Italia e Inghilterra.
«Sono arrivato nell’intervallo di Italia-Inghilterra, quando perdevamo 1-0. Non ho fatto in tempo ad entrare nella lounge alle spalle della tribuna d’onore, che mi è venuto incontro il presidente della Repubblica Mattarella. Lui a me! Mi ha colto di sorpresa… Complimenti, mi ha detto, ho visto i primi due set della tua partita, sei stato pazzesco…».
Poi gli si sono avvicinati tanti altri personaggi famosi.
«Poi non ci ho capito più niente. È sbucato Fabio Capello e mi ha abbracciato: io so chi è Capello, ovviamente, ma non ci eravamo mai visti in vita nostra! C’erano presidenti, istituzioni, vip, ex calciatori… A un certo punto sono spuntati Shevchenko, Figo, Beckham a cui ho stretto la mano. Una confusione incredibile! Tante emozioni tutte insieme. Troppe».
Parla di sé. La serenità che mostra è solo apparenza.
«Sembro sereno, ma poi ripenso alle cose e non riesco a dormire, rimugino per giorni. Gestire le emozioni intense di una finale sul centrale di Wimbledon, per esempio, non è stato affatto facile. Per calmarmi ho pensato alla strada per arrivare fino a lì, al lavoro, alle trasferte, ai mesi lontano da casa e dalla famiglia. Mi ha aiutato a sentire che mi meritavo quella partita, che era giusto che fossi in quel luogo, contro quell’avversario. Perché mi sono impegnato: io sono la dimostrazione che il lavoro paga».
E ringrazia la sua famiglia.
«Devo tutto ai miei genitori: senza di loro non sarei quello che sono diventato. Mio fratello Jacopo, che mi convinse a lasciare il judo per il tennis: non potrò mai ringraziarlo abbastanza. La mia ragazza Ajla, gli amici. Quelli di sempre, degli inizi. Io sono un tipo abitudinario: magari ci metto un po’ a decidere di fidarmi però quando sono a mio agio non cambio più. Il mio coach, Vin cenzo Santopadre, mi allena da quando avevo 14 anni. Ero un bambino. Sono ancora in contatto con i miei primi maestri e con i compagni della scuola tennis».
Eppure, da bambino, dice, pensava di essere scarso.
«Ero un bambino che a tennis pensava di essere scarso. Ci ho messo un po’ ad appassionarmi: mio fratello Jacopo, come ho detto, è stato decisivo. Siamo molto uniti: non a caso porto tatuata la sua data di nascita».
Continua:
«Nel 2016, a vent’anni, quando ho raggiunto la prima finale Challenger in Puglia, mi sono detto che forse, per vivere, potevo fare il tennista. Ma ho iniziato a crederci sul serio nel 2019, con la semifinale contro Nadal all’Open Usa. A New York ho capito che a un certo livello ci potevo stare, però da quel punto in poi andava creata una continuità di rendimento».
A Wembley c’era anche Djokovic. In un’altra intervista a Repubblica, Berrettini racconta:
«Ci siamo incrociati casualmente. Abbiamo chiacchierato del match, di qualche colpo della partita. Cose un po’ così. E poi gli ho detto che ci saremmo rivisti, ma non era una minaccia. Poi ci ha interrotti Fabio Capello. Il mister è stato un grande, davvero: ci ha visti e si è infilato facendosi un selfie tra di noi. È stato divertente, ha fatto un teatrino simpaticissimo e mi ha spiazzato…».