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Il tennis è diventato un gioco di squadra: la dilagante dipendenza dal coach

Una ricerca continua, ossessiva, d’approvazione e sostegno. È un tic, una routine. Il gioco è cambiato, e così i professionisti: mai più soli in campo

Il tennis è diventato un gioco di squadra: la dilagante dipendenza dal coach
Londra (Inghilterra) 10/07/2019 - Wimbledon / foto Panoramic/ Insidefoto/Image Sport nella foto: Novak Djokovic ONLY ITALY

Lo sfogo in serbo, le urla da invasato, la posa da Hulk – lui, ossuto ed elastico, coi nervi in vista. Novak Djokovic ha devastato il silenzio del Roland Garros spogliato dei tifosi in coprifuoco, con lo sguardo rivolto verso le tribune. Berrettini a capo chino usciva dal campo, mentre il campione trasfigurato proiettava sul suo angolo tutta l’adrenalina d’una vittoria molto più in bilico – evidentemente – delle parvenze televisive. E loro, il coach Marian Vajda e il resto dello staff e degli affetti (una manciata di presenze accreditate), ad applaudire, ma più che altro ad assorbire quella folata d’energia.

L’altro, Berrettini, aveva disattivato l’automatismo: ora non guardava più la sua “panchina” – il silenzioso Santopadre per primo – come invece aveva fatto per oltre tre ore di partita. Ogni vincente un’occhiata, ogni errore una sbirciata. Il pugno alzato sempre nella stessa direzione. Una ricerca continua, ossessiva, d’approvazione e sostegno.

Lo fanno tutti, grandi campioni e futuribili talentini, gli onesti maniscalchi oltre top 100 come i più ambiziosi Next Gen: in campo non si sta più da soli. Il tennis è diventato quasi un gioco di squadra. La solitudine dei numeri primi è ormai storia d’un passato compulsivo, fatto di gente che – spesso rovinosamente – elaborava decine di intimi lutti, in campo, prima di stordirsi con i successi o perire nella sconfitta. Ora no, ora c’è “l’angolo”.

Tra gli uomini, essendo espressamente vietato dal regolamento, il “coaching” (i consigli visibili o udibili) è diventato una prassi quasi telepatica, un’arte divinatoria: per ogni soluzione serve il feedback, il riconoscimento espresso, rintracciabile in un sopracciglio che si alza, una smorfia, un applauso, un pugnetto. Ma, soprattutto, non è più casuale. È un tic, una dipendenza. Gli arbitri, malvolentieri – tranne che in casi di clamorosi eccessi – chiudono un occhio. E lasciano socchiusa la valvola di sfogo.

Le donne, la WTA, hanno regole diverse, forse più sensate. Il coaching è regolato: prima che la pandemia cambiasse tutto, era previsto un time out una volta a set e su richiesta. Ora è concesso un dialogo “discreto”: comunicazione verbale quando la giocatrice è impegnata nella parte di campo dove siede l’allenatore, o gestuale quando è lontana. Il coach ha un suo box, un’area circoscritta solo a lui destinata.

Negli Slam però anche alle donne è precluso ogni supporto esterno, dettaglio che innescò la rissa arbitrale (mediaticamente seconda, forse, solo all’epico “You cannot be serious!” di McEnroe) tra Serena Williams e il giudice di sedia Carlos Ramos, nella finale dell’US Open 2018: Ramos si accorse che il coach di Serena, il potente Patrick Mouratoglou, continuava a farle dei segnali. Dopo averle dato due warning (per coaching, appunto, e per “racquet abuse”), gliene assegnò un terzo per “verbal abuse”, con tanto di “penalty game”. Williams lo chiamò “ladro”, in preda ad una crisi di nervi: “Non ho mai rubato in vita mia, sono una mamma, ho una bambina e tu mi derubi. Ogni volta è la stessa storia. Lo fai perché sono una donna? Ti devi scusare con me!”. Storia di una lesa maestà ad una regina del tennis.

La progressione carrieristica dei coach è diventata un metro per misurare l’evoluzione del tennis stesso, da sport individuale a gestione familiare a impresa professionale. Sono cambiati i giocatori, è cambiato il gioco. E di conseguenza il loro rapporto con gli staff.

Ora è tutto millimetrato sulla personalizzazione, curato al dettaglio. Il tennista pro ha un team, sempre più affollato e costoso. Ogni partita è studiata, esiste un playbook adattivo, con schemi superallenati e poi “aggiustati” sulle caratteristiche dell’avversario. Quando scende in campo, il giocatore è una macchina. Ha un copione su cui intervenire in corsa parcellizzando energie ed emotività. Telecomandato dalla tattica, ha bisogno di concentrazione assoluta. Il richiamo dell’angolo prende la consistenza della routine mentale. Che non è, si badi, un atteggiamento istintivo, non soltanto. È studiato, assecondato. I riti – come quelli che Nadal compie prima del servizio – seguono una scaletta, servono a ritrovare il focus con la ripetizione di gestualità precostituite.

Inoltre “gli angoli” sono dei materassi, delle cucce. Wawrinka ha passato intere partite ad offendere il suo povero allenatore dopo ogni singolo colpo, bello o brutto, vincente o meno. Come un piano preordinato, utile allo scopo finale: garantire il giusto grado d’ebollizione. Murray, in un Challenger, immarcescibile dopo una vita di trionfi, ha maltrattato i suoi ad ogni singolo errore, come una seduta di psicoanalisi. E così Kyrgios portava due o tre fidati amici a bordo campo, da invocare a piacimento per esaltarsi o bestemmiare, in una sfilata di “c’mon mate!”

In un contesto del genere gli allenatori hanno preso il potere, diventando protagonisti a loro volta. Sono nate le grandi accademie: dall’antesignano Bollettieri, a Mouratoglou, a Piatti. Costruendo imperi sul tocco magico, sulla reputazione. E, in moltissimi casi, sulla tensione sentimentale con i giocatori.

Perché il tennis ha una dimensione sensoriale sovrasviluppata, indomabile. Il grande successo della nouvelle vague italiana di questi è anni è spiegabile anche nel rapporto dei talenti azzurri con i loro allenatori storici. Veri e propri allevatori. Musetti nasce e cresce con Simone Tartarini, Sinner con Piatti, Sonego con Gipo Arbino, Cecchinato è arrivato al top con Vagnozzi, il legame tra Berrettini e Santopadre è viscerale. I giocatori italiani sono, per indole, quelli più comunicativi, e ricettivi. Sono creature dei loro coach, figure quasi paterne.

Pur senza scomodare i padri-padroni di cui trabocca il tennis, da Agassi in giù, l’aneddotica sulle relazioni simbiotiche è pressoché infinita. Pete Sampras terminò uno storico quinto set contro Jim Courier ai quarti di finale degli Australian Open del 1995 in lacrime: uno spettatore gli aveva urlato che doveva vincere per Tim Gullikson il suo coach tornato in patria per l’aggravarsi di un tumore al cervello che lo avrebbe ucciso a 45 anni.

E poi c’è “zio Toni”. La Nadal&Nadal corporation, il più produttivo connubio tecnico-familiare della storia del tennis. Tra l’altro Toni Nadal ha più volte confessato di fregarsene, del divieto di coaching. Una volta Federer lo sgamò pubblicamente.

“Parlo con Rafa durante le partite. Lo so che non è permesso ma alla mia età non ho nulla da nascondere. Non è naturale pagare un allenatore per recarsi in Australia o a New York per vedere il suo giocatore e non potergli dire niente. Tutti gli sport si evolvono…”

Era il 2013. Nei decenni precedenti questa “sovversiva” propensione del tennista a farsi tenere per mano, mentre è in campo a combattere demoni e avversari, era poco evidente, se non sconosciuta ai “divi” di uno sport ambiziosamente fatto di psicopatici al comando. Restavano in disparte, gli allenatori. Poi magari, come Lennart Bergelin, lo storico allenatore di Borg, alloggiavano nella camera a fianco in hotel per controllare che le donne non importunassero i loro protetti. Gli stessi che poi, per ironia della sorte e dell’evoluzione umana, sono diventati grandissimi coach di grandissimi giocatori. E che, dopo aver spaccato tonnellate di racchette sui campi di mezzo mondo, se ne stanno lì, inquadrati dalle tv, dopo ogni vincente dei propri adepti, come registi della stessa magia. Coautori. A supportare, ma più che altro a sopportare questa fragile generazione di tennisti mai-soli.

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